È giunto il momento di riconoscere gli infermieri come ossatura del SSN
Nell’ultimo periodo la regione Veneto, con l’avvallo di alcuni Ordini provinciali, ha deliberato l’istituzione del cosiddetto super-OSS; analoga direzione sta percorrendo la regione Lombardia.
Nascerà una nuova figura professionale che riceverà una formazione supplementare tesa a sviluppare conoscenze teorico-pratiche che gli consentano, nella sostanza, di vicariare l’infermiere, per ora nelle sole strutture sanitarie e sociosanitarie residenziali e semiresidenziali. A quest’ultimo è stata garantita la possibilità di formare il nuovo OSS e naturalmente di assumersi la responsabilità del suo operato.
Chi sostiene questi modelli teorizza che rappresentino il miglior risultato possibile per scongiurare la chiusura delle RSA determinata dalla carenza di infermieri. Ciò che appare confuso è il futuro che le regioni e parte della rappresentanza professionale stanno disegnando per la professione infermieristica. Non sono infatti apprezzabili percorsi di crescita, di sviluppo di carriera e anche di riconoscimento economico da riservare agli infermieri che sceglieranno (obtorto collo?) di svolgere la professione in queste strutture.
Riflettendo sui dati recentemente elaborati dal Prof. Mastrillo di UniBo e pubblicati dalle riviste di settore emergono due aspetti significativi: la percentuale degli infermieri che si sono laureati nel 2021 rispetto ai posti messi a bando è scesa al 67% (9.931 nuovi professionisti a fronte di un numero quasi doppio di pensionamenti); il numero di medici che si sono laureati nello stesso anno ha superato per il secondo anno consecutivo quello degli infermieri.
Questi numeri potrebbero consentire ad alcuni ancestrali modelli di assistenza di germogliare con nuovi attori, dapprima nelle residenze per anziani. Un rapporto dualistico medico-nuovo OSS potrebbe fornire una risposta ai bisogni del sistema, molto meno a quelli dei cittadini che vedrebbero svuotarsi di contenuti la presa in carico infermieristica e la relativa pianificazione assistenziale a fronte di prescrizioni e conseguenti interventi tecnico-pratici incentrati sul caso clinico e non sulla persona.
Orientando lo sguardo verso le strutture pubbliche il senso di smarrimento della professione infermieristica non svanisce. Pochi giorni fa è stata pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato che ha “bocciato” le Unità di Degenza Infermieristica sorte in Umbria, temute e osteggiate da OMCeO Perugia, CIMO e AAROI-EMAC Umbria. Strutture di degenza indirizzate a garantire un modello di assistenza concretamente centrato sulla persona e orientato al soddisfacimento dei bisogni di tipo assistenziale, che sono prevalenti nelle situazioni di cronicità e fragilità.
Sebbene forti del recente “Patto di diamante” siglato tra FNOPI e FNOMCeO che si pone anche l’obiettivo di colmare la carenza di personale per dare dignità al lavoro e migliorare l’assistenza
ciò che disorienta è il contesto nel quale si sta avviando la costruzione, anche fisica, delle strutture previste nella Missione 6 del PNRR e in particolare degli ospedali di comunità, così come descritti nel DM 77. Illustri esperti di politica sanitaria, partendo dalla sentenza del Consiglio di Stato, definiscono quantomeno arbitraria - quando non contro norma - la scelta di investire sulle unità operative a gestione infermieristica arrivando a ipotizzare atteggiamenti pregiudizievoli verso la componente medica a favore di quella infermieristica.
In difetto della necessaria formazione giuridica, indispensabile per entrare nel merito della sentenza del Consiglio di Stato, ciò che non sfugge è la pronta levata di scudi a discapito, ancora una volta, della professione infermieristica. Gli esiti delle unità di degenza a gestione infermieristica presenti nelle regioni più virtuose (vedi la realtà riminese) sono acclarati e consolidati.
La corretta pianificazione ha dimostrato di raggiungere gli obiettivi assistenziali, principalmente quando questi sono da porre in relazione non solo alle condizioni cliniche, ma soprattutto ad elementi diversi come la famiglia, i fattori ambientali legati alla persona e al contesto di provenienza, nonché la possibilità di accedere alle cure e ai servizi.
Sembra quasi apprezzarsi una tendenza a voler circoscrivere la professione infermieristica nel pantano in cui è stata costretta negli ultimi decenni, determinandone implicitamente l’impossibilità ad esprimersi intellettualmente e progettualmente. Il tutto sorretto dalla necessità di appellarsi al quadro normativo vigente, quasi ad ignorare che negli ultimi decenni il Servizio sanitario nazionale è stato puntellato anche, se non principalmente, dalla professione infermieristica che ha dimostrato di saper garantire risposte ai bisogni dei cittadini sopperendo silenziosamente proprio alla carenza di quelle norme di cui ora s’invoca il rispetto
Le logiche corporativiste, tanto care a chi teorizza le professioni lontano dai luoghi di cura, non giovano ai cittadini. Occorre sviluppare quanto prima quell’assistenza di prossimità di cui la pandemia ha palesato la necessità. Un’assistenza di qualità realizzabile solo con un numero adeguato di professionisti laureati e competenti, con prospettive di crescita e percorsi di carriera ben definiti, sostenuti da un riconoscimento economico che ne certifichi il valore e non solamente il costo monetario.
L’emergenza dei Pronto soccorso rappresenta solo la punta dell’iceberg della profonda crisi che il Servizio sanitario nazionale sta attraversando. Tra pochi anni la carenza infermieristica si manifesterà in tutta la sua criticità. Il rapporto infermieri/medici in Italia si attesta attualmente a 1,5:1 (nella media OCSE è di 3:1) e, salvo improbabili inversioni di rotta, nei prossimi anni si avvicinerà all'1:1 al pari di Colombia, Cile, Costarica e Messico.
Volendo sostenere la posizione di chi, condividendo la sentenza del Consiglio di Stato, dichiara che occorre cambiare il quadro normativo di riferimento “in modo democratico” si deve affermare che, con la medesima modalità, è giunto il momento di collocare la professione infermieristica in un ambito di contrattazione proprio che ne certifichi le peculiarità, riconoscendone il fondamentale apporto quale ossatura del Servizio sanitario nazionale pubblico. Lo si deve esigere, con coraggio e determinazione.