Aggressioni sul lavoro per 130mila infermieri ogni anno in Italia
Le aggressioni (fisiche e/o verbali) sul posto di lavoro colpiscono mediamente in un anno un terzo degli infermieri – la categoria professionale più numerosa del Servizio sanitario nazionale e della Sanità in generale – il 33%, dunque circa 130mila casi, con un “sommerso” non denunciato all’Inail di circa 125mila casi l’anno. Il 75% delle aggressioni riguarda donne.
Questi, in estrema sintesi, i dati comunicati da Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi, e Annamaria Bagnasco, ordinario di Scienze infermieristiche all’Università di Genova e coordinatrice della ricerca, nel corso del seminario “#rispettachitiaiuta: la sicurezza degli operatori sanitari”, organizzato al Senato su incipit del senatore Gaspare Marinello.
Spiega Bagnasco: Lo studio ha dimostrato che gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione fisica oppure verbale; ciò detto, per vari motivi non riescono a intercettare e prevenire tali episodi
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Tra le concause dimostrate dallo studio – come la stessa coordinatrice della ricerca ammette – c’è la comunicazione inadeguata che avviene tra il personale e l’assistito e/o l’accompagnatore («tuttavia, i processi comunicativi sono ampiamente influenzati dall’ambiente di lavoro, dallo staffing e dal benessere dei professionisti.
Episodi di violenza non segnalati
Dallo studio emerge che chi non ha segnalato l’episodio lo ha fatto perché, nel 67% dei casi ha valutato che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio di violenza, nel 20% convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte dell’organizzazione in cui lavora, il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica attesa/accettata del lavoro e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire in modo efficace tali episodi (senza doverli riferire).
Conseguenze sia fisiche sia psicologiche
Le conseguenze materiali per i professionisti vittime di aggressioni fisiche spaziano nel 32% dei casi da escoriazioni e abrasioni a fratture e lesioni dei nervi periferici, fino anche (seppure in pochi casi) all’invalidità.
La principale conseguenza psicologica è il burnout che colpisce il 10,8% degli infermieri che hanno subito violenza: attualmente quelli in burnout per questa e altre cause (stress da lavoro) sono il 33%. Anche gli assistiti, va da sé, corrono rischi.
La violenza è nella maggior parte dei casi legata alla carenza di personale e alle sue conseguenze sui servizi: un’assistenza efficiente (con la riduzione del rischio di mortalità fino al 30%) si ha con un rapporto infermiere/paziente 1 a 6; ad oggi, invece, il rapporto medio nazionale è 1 a 12.
Danni di natura economica
Secondo lo studio CEASE-IT promosso dalla Fnopi – svolto da otto atenei italiani, capofila l’Università di Genova – i danni sono anche di natura economica.
Il 32% degli infermieri riferisce di aver ricevuto violenza, con una media annuale di 15 episodi per singolo infermiere. In tutto, il 4.3% riferisce assenza dal lavoro a causa di violenza subita e questo, se l’assenza è di almeno tre giorni, vale circa 600 euro a caso che moltiplicati per il numero degli infermieri coinvolti in un anno sale a oltre 11 milioni di euro, valutando la prevalenza dell’evento sulla popolazione infermieristica italiana.
Ma se l’assenza raggiunge i 7 giorni la stima di CEASE-IT triplica il costo per singolo evento (1.800 euro) e si raggiungono fino a oltre 34 milioni di euro/anno di costi totali a carico a carico del sistema e della società per la violenza sugli infermieri.
Più carichi di lavoro e più rischio di aggressioni
Il rischio di aggressioni risulta maggiore aumentando il carico di lavoro assistendo un paziente in più durante l’ultimo turno lavorativo, sale al 4% la probabilità di sperimentare violenza. Riconoscere il comportamento agitato dell’assistito come fattore predittivo degli episodi di violenza aumenta del 66% la probabilità di subire violenza rispetto a coloro che non riconoscono tale condotta come fattore predittivo.
E ancora, lavorare come infermiere nell’area dell’emergenza/urgenza aumenta di oltre due volte la probabilità di subire violenza rispetto a lavorare in area medica. Lavorare come infermiere nell’area della salute mentale incrementa di oltre quattro volte la probabilità di subire violenza rispetto ad altri ambiti.
Fattori che riducono gli episodi di violenza
Tra i fattori che diminuiscono le aggressioni è risultata significativa l’età; infatti, all’aumentare dell’età degli infermieri diminuisce del 3% la probabilità di subire violenza.
Gli infermieri che riconoscono l’uso di sostanze illecite da parte degli assistiti come fattore predittivo di episodi di violenza hanno il 36% di probabilità in meno di subire violenza rispetto a coloro che non riconoscono tale fattore come predittivo.
La presenza di procedure chiare per la gestione degli episodi di violenza sul luogo di lavoro riduce la probabilità di subire violenza del 26% rispetto ai luoghi di lavoro mancanti di tali procedure.
Infermiere lavoro usurante, non solo gravoso
Puntualizza la presidente di Fnopi, Mangiacavalli: Per restituire dignità all’attività professionale e garantire la sicurezza degli infermieri durante l’orario lavorativo è quanto mai urgente inserire questa professione tra le categorie usuranti, mentre ora è riconosciuta soltanto la classificazione tra i lavori gravosi
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