Gestione delle epatiti virali, i criteri attuali non bastano più

Scritto il 28/07/2025
da Silvia Fabbri

Le epatiti virali rimangono una delle principali cause di mortalità per malattie infettive a livello mondiale. Secondo il Global Hepatitis Report 2024 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 350 milioni di persone convivono con un’infezione cronica da virus dell’epatite B o C. Ogni anno si registrano più di 1,3 milioni di decessi, spesso dovuti a complicanze epatiche come cirrosi e carcinoma epatocellulare. La situazione è particolarmente critica per l’epatite B. Lo stesso report stima che 254 milioni di individui vivano con un’infezione cronica da HBV, ma solo il 13% riceve una diagnosi e appena il 3% accede a terapie antivirali, nonostante siano disponibili farmaci con comprovata efficacia e sicurezza.

Diagnosi tardiva e accesso limitato alle cure

gestione epatiti

Sono oltre 350milioni le persone che convivono con un'infezione cronica data dal virus dell'epatite B o C.

Secondo Anna Teresa Palamara, direttrice del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, la diagnosi è da sempre un elemento critico, poiché la maggior parte delle persone non presenta sintomi evidenti.

Infezioni che restano silenti per anni emergono spesso solo quando il danno epatico è già avanzato, riducendo la possibilità di intervenire tempestivamente.

Le difficoltà diagnostiche e i criteri restrittivi di accesso alla terapia generano un ampio divario nella cosiddetta “cascata di cura”, che riguarda sia l’epatite B sia l’epatite C, sebbene per quest’ultima le terapie antivirali ad azione diretta abbiano rivoluzionato la prognosi.

Gestione dell’epatite B cronica, richiesta revisione delle linee guida

Un gruppo di 30 ricercatori dell’ICE-HBV Consortium ha recentemente pubblicato su Lancet Gastroenterology & Hepatology un position paper che mette in discussione l’attuale modello terapeutico per l’epatite B.

Le linee guida internazionali, comprese quelle dell’European Association for the Study of the Liver (EASL) e dell’American Association for the Study of Liver Diseases (AASLD), raccomandano l’inizio della terapia antivirale solo quando la replicazione virale è elevata, gli enzimi epatici sono persistentemente alterati e la fibrosi epatica è già significativa.

Secondo le evidenze riportate dagli autori, questa strategia lascia milioni di pazienti senza cure pur avendo un’infezione attiva. Fino al 40% dei casi di carcinoma epatocellulare si sviluppa in persone che, secondo i criteri attuali, non sarebbero state trattate.

Gli scienziati propongono un approccio più inclusivo, ispirato al modello “test and treat” adottato con successo nella gestione dell’HIV. Non si tratta di raccomandare immediatamente la terapia per ogni individuo con infezione cronica, ma di estendere i criteri di eleggibilità per trattare una quota più ampia di pazienti a rischio, riducendo la progressione della malattia e la trasmissibilità del virus.

L’Italia e la necessità di un nuovo modello assistenziale

Nel nostro Paese si stimano circa 250.000 portatori cronici di HBV. Solo una minoranza riceve la diagnosi e meno del 5% è in terapia antivirale. Tra le cause figurano la scarsa consapevolezza della popolazione, algoritmi di cura complessi e una gestione clinica concentrata in centri specialistici che limita l’accesso alle cure territoriali.

Per affrontare il problema non è sufficiente intervenire sull’epatite B. Occorre una strategia integrata per tutte le epatiti virali che preveda programmi di screening estesi, modelli di presa in carico più vicini al cittadino, maggiore coinvolgimento della medicina generale e delle competenze infermieristiche specialistiche.

Inoltre, la ricerca deve sviluppare nuovi biomarcatori in grado di identificare precocemente i pazienti a rischio di evoluzione verso cirrosi e carcinoma epatico, facilitando decisioni terapeutiche personalizzate.