Persone LGBTIQA+ tra accoglienza e diritto alla salute

Scritto il 17/05/2023
da Carlo Scovino

Tra le possibili difficoltà nella comprensione delle dinamiche e delle possibili difficoltà nel rapporto tra persone LGBTIQA+ e i professionisti della salute si cita l’eteronormatività che è alla base di tutte le forme di discriminazione degli orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale che è configurata in una visione del mondo che considera come naturale solo l’eterosessualità, dando per scontato che tutte le persone lo siano. Da questa visione deriva l’etero sessismo, una forma di rifiuto e stigmatizzazione di ogni forma di comportamento, identità e relazione non eterosessuale che si manifesta sia a livello individuale che sociale e che riveste una valenza culturale influenzando pensiero, abitudini e istituzioni sociali. Tale atteggiamento può compromettere l’accesso ai servizi poiché la persona LGBTIAQ+ che si rivolge ai servizi sociosanitari può essere oggetto di discorsi implicitamente o esplicitamente omofobici, o che presuppongono un’inevitabile eterosessualità, da parte dei professionisti sanitari con cui viene a contatto.

Rischio di discriminazione nel diritto alla salute per persone LGBTIQA+

Il benessere e la serenità della persona passano attraverso la piena capacità e legittimità sociale di accettazione delle caratteristiche del proprio essere. Da molto tempo la scienza ha riconosciuto quello che viene definito lo human continuum, o identità fluide.

Tutte le tipologie umane di identità sessuale e di genere testimoniano che, grazie alle ricerche degli anni Cinquanta del biologo statunitense A. Kinsey - famoso per la pubblicazione del suo celebre rapporto sul comportamento sessuale di uomini e donne - esiste una scala di varietà bio-psicologica umana che sta tra l’eterosessualità e l’omosessualità.

Il suo successore, F. Klein, ha contribuito in seguito ad affermare come l’orientamento sessuale sia un processo dinamico e multivariabile. Nel 2011 la cardiologa statunitense M. Legato, in un editoriale apparso sulla rivista Gender Medicine, ha parlato di “normal human continuum” confermando che le evidenze dimostrano che i diversi orientamenti sessuali fanno parte delle normali caratteristiche degli esseri umani.

L’Associazione Mondiale degli Psichiatri (WPA) nel marzo 2016 ha pubblicato un documento di azioni pratiche a sostegno delle persone omosessuali, lesbiche e transgender. Il testo riconosce alle persone LGBTIQA+ gli stessi diritti e responsabilità di tutti gli altri cittadini e spetta loro pari accesso alle cure sanitarie “l’orientamento sessuale verso l’altro sesso, di per sé non implica alcuna disfunzione psicologica obiettiva o compromissione di giudizio, stabilità emotiva, o riduzione delle capacità professionali”.

Il testo considera l’attrazione verso lo stesso sesso, l’orientamento e il comportamento come normali varianti della sessualità umana, ribadisce la mancanza di efficacia scientifica dei trattamenti che tentano di cambiare l’orientamento sessuale e pone in evidenza i danni e gli effetti negativi di tali “terapie”, riconosce lo stigma sociale, sostiene la necessità di de-criminalizzare e nel contempo di riconoscere pari diritti per tutte le persone, sottolinea la necessità di ricerca e sviluppo di interventi medici e sociali basati su prove che supportino gli eventuali disagi psicologici dovuti a stigma e criminalizzazione sociale.

Tra le possibili difficoltà nella comprensione delle dinamiche e delle possibili difficoltà nel rapporto tra persone LGBTIQA+ e i professionisti della salute si cita l’eteronormatività che è alla base di tutte le forme di discriminazione degli orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale che è configurata in una visione del mondo che considera come naturale solo l’eterosessualità, dando per scontato che tutte le persone lo siano.

Da questa visione deriva l’etero sessismo, una forma di rifiuto e stigmatizzazione di ogni forma di comportamento, identità e relazione non eterosessuale che si manifesta sia a livello individuale che sociale e che riveste una valenza culturale influenzando pensiero, abitudini e istituzioni sociali.

Tale atteggiamento può compromettere l’accesso ai servizi, poiché la persona LGBTIAQ+ che si rivolge ai servizi sociosanitari può essere oggetto di discorsi implicitamente o esplicitamente omofobici, o che presuppongono un’inevitabile eterosessualità, da parte dei professionisti sanitari con cui viene a contatto. Può sentirsi vittima di pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni, rifiuti e derisioni e di conseguenza decidere di interrompere i rapporti con il servizio: cure, trattamenti, terapie ad hoc, ecc.

L’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea nel suo Report annuale (FRA, 2015) segnala che dai dati desunti da ricerche sul campo proposte da associazioni a tutela e dagli organismi nazionali di parità, per ciò che riguarda l'area della salute, molte persone LGBTIQA+ temono stigmatizzazioni e pregiudizi e che è verosimile ipotizzare comportamenti omofobici e di discriminazione da parte dei professionisti sanitari.

Il rischio di discriminazione nel diritto alla salute per le persone LGBTIQA+ si differenzia, rispetto ai pazienti, non solo per particolari aspetti fisici e psicologici ma anche per ciò che riguarda le cure richieste (spesso vi è un’autoesclusione della cura) e fruite, a causa di una serie di fattori quali esperienze di discriminazione e mancanza di consapevolezza nei confronti dei propri specifici bisogni (si pensi ad esempio agli appartenenti alla comunità Rom, agli homeless, ecc.).

Promuovere la consapevolezza sul tema della diversità e dell’inclusione

La formazione professionale in sanità è ancora permeata da un approccio eteronormativo e i servizi sociosanitari pubblici arrancano nella ridefinizione di linee guide e protocolli. Non mancano, però, esempi virtuosi messi a punto da alcune direzioni sanitarie aziendali e regionali quali l’Emilia-Romagna, la Toscana e il Piemonte, ma la strada da percorrere è ancora lunga.

Nella formazione dei professionisti sociosanitari permangono numerose lacune legate al sesso e ancorate a tabù sessuali che si possono ascrivere a quell’omofobia interiorizzata da parte di chi agisce l’omofobia stessa. Credo che esista una difficoltà di approccio ai temi inerenti alla sessualità e l’identità sessuale che vede ancora troppi professionisti sociosanitari molto lontani dall’aver consapevolezza non solo delle varie identità sessuali che l’umanità presenta, ma anche dei conseguenti provvedimenti e dispositivi.

Le professioni d’aiuto, e tra queste quelle sociosanitarie, riconoscono la necessità di un coinvolgimento attivo del malato nel processo di cura: tenere un atteggiamento non giudicante, sia nelle parole che nella prossemica e negli atteggiamenti, metterà a proprio agio il/la paziente, favorendo le condizioni in grado di facilitare la conversazione e un’adeguata e consapevole accettazione delle prestazioni/trattamenti erogati.

Usare un linguaggio neutro e inclusivo nei colloqui con i pazienti, promuovere un’interazione con i pazienti sensibile e scevra di pregiudizi può consentire una comunicazione più efficace sotto il profilo sociosanitario rendendo il/la paziente più disponibile a fornire informazioni importanti per le sue cure.

Una domanda, anche solo dalla sua formulazione, può comunicare inclusività e considerazione: occorre fare attenzione a porre domande che presuppongano il dare per scontato l’eterosessualità. I professionisti della salute dovrebbero facilitare il più possibile i/le pazienti nel manifestare la propria identità e orientamento sessuale, pur ricordando che spetta unicamente a loro (e in modo libero) la decisione se esplicitare questo aspetto della propria personalità e vita.

Bisogna altresì riconoscere che l’auto-identificazione e il comportamento del/la paziente, non sempre coincidono: il rapporto fra come una persona s’identifica e si comporta può essere fluido e cambiare nel tempo.

La sessualità è legata a doppia mandata alla qualità di vita e va da sé che ogni alterazione della prima si tramuta in uno scadimento della seconda. Porgere ascolto alla persona che soffre, aiutarla ad affrontare problemi fisici e psichici, impostare un pronto e corretto approccio deve essere la base di una relazione che riguarda tutti i componenti della filiera della salute.

Il professionista sociosanitario attraverso la comprensione delle modalità comunicative del paziente può aiutarlo a porre rimedio al “problema”, passando da una semplice attinenza a prescrizioni terapeutiche (la compliance) ad un momento di partecipazione attiva nella gestione dei trattamenti assegnati (empowerment), in una nuova forma di cooperazione.

Il ruolo degli operatori sociosanitari nel quadro della gestione della sessualità è fondamentale, non solo per l’impostazione di corretti protocolli diagnostici e terapeutici, ma soprattutto nel far emergere problemi e patologie, tanto taciuti dal paziente quanto invalidanti ai fini della qualità di vita. Questa passa necessariamente attraverso una migliore comunicazione tra i vari soggetti di questo scenario: medici, infermieri, assistenti sociali, pazienti, partners, media, industria, providers di educazione.

Approccio alla salute sessuale

La prospettiva di approccio alla salute sessuale da molti anni in uso è quella bio-psico-sociale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito consistere nel benessere fisico, emozionale, mentale e sociale collegato alla sessualità.

La persona umana, intesa come essere unico nelle sue componenti biologiche e psicologiche, sviluppa pensieri, convinzioni, desideri, valori etici e fattori spirituali che si estrinsecano in tendenze, comportamenti, abitudini, che continuamente si raffrontano con leggi, situazioni economiche, ambienti sociali e politici.

A questo si aggiungano da una parte le componenti genetiche e gli eventi di vita, quali malattie, traumi, stili di vita, ecc. La sessualità ha aspetti e valenze fisiche, psichiche, relazionali e sociali che comprendono tutta la persona nella sua integrità.

La Direttiva 2000/78/CE4 ha incluso, per la prima volta, l’orientamento sessuale fra le caratteristiche personali sulla base delle quali ogni ingiustificata differenziazione è, di fatto, una violazione del principio della parità di trattamento. Tale tipo di discriminazione sembra colpire ancora moltissime persone in tutta Europa: lo confermano i dati del cinquantasettesimo sondaggio Flash Eurobarometer (2008), i quali indicano che in media circa l’1% del campione intervistato ha fatto esperienza della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale.

Per limitare gli effetti delle discriminazioni, quindi, non sono sufficienti leggi e norme internazionali o nazionali (se pur importanti e necessarie), bisogna creare una cultura del rispetto, della legalità, della cittadinanza e riuscire a modificare i comportamenti, le pratiche istituzionali e professionali.

Nel 2004 la Toscana è stata la prima regione ad introdurre una legge antidiscriminazione con la quale venivano sancite le “Norme contro la discriminazione sessuale determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”. Due anni dopo è stata licenziata una delibera che ha dato continuità sia agli interventi contro le discriminazioni generate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, sia alla diffusione di buone pratiche di salute nella comunità LGBTIQA+.

Inoltre, grazie alla suddetta deliberazione, sono stati realizzati in varie realtà sanitarie della Toscana numerosi interventi e percorsi di sensibilizzazione, di formazione e aggiornamento professionale nei confronti degli operatori sanitari, avviati dibatti e riflessioni sulle varie forme di discriminazione, in particolare nelle strutture sanitarie ospedaliere e territoriali, negli ambulatori e negli studi, nonché sugli atteggiamenti e comportamenti dei professionisti della salute.

Sempre a seguito della delibera è stato attivato un gruppo di lavoro regionale che ha lavorato su tre specifiche ricerche sulla discriminazione sessuale in ambito ospedaliero e sanitario, con l’obiettivo di raccogliere dati ed informazioni, al fine di avere elementi e testimonianze sui quali poter riflettere ed operare attraverso azioni educative contro ogni tipo di discriminazione e per garantire un’assistenza sanitaria senza pregiudizi e discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere definito.

Implementare la formazione del personale sanitario

È necessario delineare appropriati, specifici e mirati percorsi di formazione – previsti nell’ambito dell’aggiornamento continuo in medicina (ECM) - di tutti gli operatori che lavorano sia per la cura, che per la promozione della salute e per l’health literacy, ovvero per acquisire quelle abilità cognitive e sociali che motivano a raggiungere un livello di conoscenze, di capacità individuali e di fiducia in se stessi e rendono capaci di agire per migliorare la propria salute e quella della collettività, modificando lo stile e le condizioni di vita personali.

L’esposizione e l’interiorizzazione del disprezzo sociale, la discriminazione e lo stigma verso il “diverso” a vari livelli (famiglia, scuola, ambiente di lavoro e del tempo libero, istituzioni e, purtroppo, anche operatori sociosanitari), sono all’origine di sentimenti di disistima, di conflittualità personale, di disadattamento e di problemi di salute individuale (Herek, Garnets, 2007; Omoto, Kurtzman, 2006), oltre che fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi mentali e di ricorso all’uso di sostanze (Cochran, 2001).

Gli interventi di promozione della salute per le persone LGBTIQA+ sono realizzati quasi esclusivamente dalle associazioni (in modo discontinuo e con scarse risorse) e ciò è probabilmente il frutto di una discriminazione a livello istituzionale, per cui la salute delle persone omosessuali è percepita come meno importante di quella delle altre e di atteggiamenti sociali omofobici condivisi che implicano biasimo, delega e innominabilità.

È necessaria un’attenta riflessione e l’implementazione di azioni tese a modificare i disagi per il non riconoscimento dei diritti che si traducono in omofobia, imbarazzo, incomprensioni o in un’assistenza insufficiente, in diagnosi non corrette, in mala gestione della malattia, in una diminuita compliance alle cure o ai controlli di routine.

È necessario dare piena applicazione - per tutti e in tutte le sedi - alla Carta di Ottawa (1986) che pone la necessità di “riorientare” i servizi sanitari e territoriali che devono operare e realizzare il loro mandato non solo nella prevenzione, diagnosi e cura delle malattie e sulla riabilitazione, ma anche nella promozione della salute: garantire servizi assistenziali efficaci, (“accoglienti”) ed appropriati, attraverso un processo che mette gli individui in grado di avere un maggiore controllo sulla propria salute (empowerment for health) e di migliorarla.