Insufficienza renale cronica ed emodialisi: Confine tra cura e accanimento
Il progresso tecnologico e scientifico ha prodotto un incremento della sopravvivenza dei pazienti in dialisi unitamente ad una maggiore adattabilità e tolleranza al trattamento dialitico.
Le metodologie sono sempre più automatizzate e di facile gestione tanto da affidare la dialisi al paziente stesso (dialisi domiciliare) o a personale laico. Tuttavia questa evoluzione ha portato ad una maggiore accessibilità alla dialisi anche nei soggetti con prognosi negative spesso trascurando uno degli elementi oggi di maggiore interesse e di studio, ovvero la qualità della vita nei pazienti in trattamento dialitico.
Le scelte terapeutiche devono garantire alla persona oltre che la cura della propria malattia anche il mantenimento della propria dignità e qualità di vita. Inoltre la complessità del paziente cronico, spesso portatore di più patologie (diabete, Irc, ipertensione, MCV, neoplasie, demenza senile, ecc.) ha costretto le comunità scientifiche e cliniche, ma anche le organizzazioni sanitarie, a rivedere i propri modelli di cura che devono necessariamente svilupparsi all’interno di una dimensione multidisciplinare e interprofessionale che tenga conto delle questioni etiche e deontologiche, le quali hanno assunto peso enorme sui percorsi terapeutici che il malato in modo sempre più partecipato affronta.
Uno degli aspetti di grandissimo interesse è il trattamento dialitico in età geriatrica e quanto questo possa rappresentare un reale vantaggio clinico, psichico e sociale garantendo un buon livello di qualità di vita oppure possa diventare inutile o addirittura dannoso.
Molti studi recenti hanno evidenziato che nei pazienti di età >75 anni con numerose comorbilità il trattamento dialitico - rispetto al caso di pazienti con le stesse caratteristiche, ma in terapia conservativa - non comporta un significativo aumento della sopravvivenza.
I benefici del trattamento dialitico nei pazienti anziani e con numerose comorbilità sono stati fortemente messi in discussione proprio dagli studi sulla qualità della vita e dalle riflessioni etiche e deontologiche sempre più in primo piano non solo nelle comunità scientifiche, ma anche nei maggiori canali di informazione sanitaria.
L’approccio conservativo comporta un cambiamento culturale che non vede più il trattamento sostitutivo come unica opzione terapeutica dell’insufficienza renale terminale i cui indicatori di qualità sono limitati ai parametri clinici, ma che prende in considerazione fattori come:
- la qualità di vita
- le condizioni psico-sociali
- lo stato mentale
Condizioni, queste, che nei modelli assistenziali del passato non avevano alcun peso sulla decisione clinica. Un passaggio culturale che porta alla transizione dal concetto di “curing” al concetto di “caring”, che tanto sta a cuore alla disciplina infermieristica.
Un approccio che non si concentra più sul prolungamento della vita in sé, ma sulla presa in carico della persona garantendole qualità della vita, controllo della sintomatologia (debolezza, dolore, crampi muscolari, cefalea, nausea, inappetenza, ecc.), talora sottovalutata, trattamento degli stati depressivi, del dolore, accompagnamento al fine vita nel pieno rispetto della dignità umana. In sostanza alcuni dei principi cardine della medicina palliativa.
Ciò non vuole sminuire l’enorme vantaggio del trattamento sostitutivo per la stragrande maggioranza della popolazione dialitica anche in età avanzata, ma la sua effettiva utilità per tutti quei pazienti affetti da più patologie concomitanti, tra cui anche quelle oncologiche, anziani con gravi compromissioni dello stato nutrizionale e di quello mentale, con una prognosi sfavorevole nel breve tempo e quanto la dialisi possa rappresentare invece, in questi soggetti, un aggravamento della sintomatologia.
Paziente nefropatico e il dolore
Nel paziente nefropatico il dolore è uno dei sintomi più riferiti e di difficile gestione e può essere causato da diverse condizioni quali malattie renali come il rene policistico, malattie vascolari e cardiovascolari, dolore addominale in dialisi peritoneale, dolore associato alla fistola arterovenosa in emodialisi, cefalea, osteoporosi e osteodistrofia uremica, spasmi muscolari, crampi piuttosto frequenti, osteomieliti, tunnel carpale, dolore da neuropatia periferica, dolore ischemico, ecc.
La letteratura è ricchissima di studi che riportano l’esperienza dei pazienti in dialisi, che lamentano numerosi sintomi fisici e psichici invalidanti legati al trattamento dialitico e della compromissione delle loro abitudini di vita quotidiana.
Queste persone possono andare incontro a veri e propri stati depressivi con una fortissima alterazione della qualità di vita che, secondo alcune ricerche, incidono anche sulla mortalità. Ma solo recentemente questi aspetti non prettamente clinici sono entrati a far parte dei processi decisionali che coinvolgono lo staff nefrologico e il paziente con la sua famiglia, per quanto concerne la scelta del tipo di trattamento sostitutivo (emodialisi, dialisi peritoneale o emodialisi domiciliare), ma anche l’eventuale decisione di non iniziare o addirittura di sospendere la dialisi.
Dialisi, un passo avanti verso la qualità di vita: Le cure palliative
Il passo ulteriore da compiere è il ricorso alle cure palliative. Tuttavia non vi è ancora piena consapevolezza da parte della popolazione generale - ma nemmeno da parte dei clinici - di quanto realmente molti pazienti nefropatici cronici vadano incontro ad una condizione di disabilità fisica e/o psichica con una grave compromissione del benessere psicosociale.
Il trattamento dialitico costringe la persona e i familiari ad un cambiamento sostanziale dello stile di vita, delle condizioni lavorative, della vita sessuale e delle relazioni sociali. Condizioni spesso sottovalutate, sottostimate nei pazienti più giovani e che, nei pazienti in età avanzata, in certi casi, si aggiungono alla presenza di altre patologie croniche e invalidanti.
Ancora troppo spesso il nefrologo lavora in condizioni di “urgenza”, che lo costringono a prendere “da solo” l’inevitabile decisione di iniziare il trattamento dialitico come unica opzione possibile e deve affrontare, oltre che le implicazioni medico-legali, il dilemma etico e deontologico di salvaguardare la vita.
Tuttavia il dibattito etico su questi temi è urgente e si articola tra il diritto inconfutabile del paziente, adulto, capace di intendere e di volere, di rifiutare le cure a fronte della loro inutilità e la necessità di definire la futilità del trattamento che, in tal caso, non dovrebbe essere attuato.
In realtà il binomio non è cosi ben definito, ma ci si muove in uno spazio denso di zone grigie di difficile interpretazione.
Nei paesi anglosassoni, negli USA, in Australia, sono presenti linee di indirizzo o vere e proprie linee guida ad hoc che aiutano gli specialisti, mediante specifici indicatori, ad orientare la scelta terapeutica ottimale che può comprendere la modalità di trattamento sostitutivo, ma anche la sua esclusione o la sua sospensione.
Attualmente è in atto, sempre nei paesi anglosassoni, la discussione di estendere le Linee Guida alle condizioni di Insufficienza Renale Acuta la cui prognosi è infausta.
La Società Italiana di Nefrologia (SIN) insieme alla Società Italiana di Cure Palliative (SICP) nel 2015 ha redatto un documento che rappresenta un primo passo per fare il punto della situazione, che intende porre questioni che stimolino la riflessione, ma che possa avere una risonanza concreta per la definizione di percorsi integrati in aiuto ai pazienti e ai loro curanti nello scegliere ciò che realmente rappresenti un beneficio.
Il nodo focale della discussione si concentra nella corretta valutazione prognostica, che nell’IRC è difficilmente definibile proprio per le caratteristiche di cronicità della malattia stessa.
Nonostante ciò, la presenza di alcuni fattori concomitanti quali l’età avanzata, la gravità e il numero delle comorbilità, lo stato di grave malnutrizione, lo stato mentale e cognitivo, numerose ospedalizzazioni contribuiscono a meglio definire la prognosi insieme all’utilizzo di specifici indicatori quali il Charlson Comorbility Index per la valutazione delle comorbilità, il Karnofsky per valutare il grado si autonomia funzionale e gli indici di valutazione dello stato nutrizionale.
Un interessante strumento è il Gold Standard Framework (GSF) Prognostic Indicator Guidance in cui vengono proposti diagrammi di flusso che partono dalla cosiddetta “Surprise Question”: saresti sorpreso se il paziente morisse nei prossimi mesi, settimane o giorni? In caso di risposta negativa si intraprende il processo GSF e il ricorso alle cure palliative.
È innegabile, ed è ampiamente dimostrato, che l’approccio multidisciplinare e interprofessionale, che mette al centro il malato, l’educazione terapeutica, il coinvolgimento attivo della persona nel processo di cura, rappresentano la strategia vincente per ridurre la progressione della malattia e per il controllo della sintomatologia e delle complicazioni, ma anche laddove si concentri sul sollievo dei sintomi fisici e psichici, sul supporto psicologico e in taluni casi sulle differenze culturali.
Questi sono gli elementi cardine della medicina palliativa il cui ricorso non si limita più al momento della morte imminente, ma alla presa in carico della persona afflitta da una malattia incurabile quando la sintomatologia è insostenibile e che ha un’aspettativa di vita molto limitata nel tempo.
Un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale (Oms, definizione di "Cure palliative")
Insufficienza renale e palliazione, lo stato dell'arte
Quando si parla di Medicina Palliativa si pensa immediatamente alle malattie oncologiche incurabili e al fine vita; tuttavia in oncologia, sempre più si tende a considerare le malattie incurabili come malattie croniche che richiedono anche un approccio terapeutico cronico, così come nel caso dei pazienti con Insufficienza renale cronica avanzata.
Inoltre alcuni studi dimostrano che con il trattamento dialitico, in certi casi, non si ottiene un significativo miglioramento dal punto di vista funzionale né della qualità della vita ed è assolutamente importante rendere il paziente e la famiglia consapevoli di tutte le opzioni terapeutiche possibili.
Purtroppo non sempre le informazioni rispetto a queste scelte sono disponibili, accessibili, spesso sono frammentate e incomplete. La decisione di iniziare il trattamento è spesso influenzata dal medico o dalla famiglia ma capita che alcuni pazienti si pentano della scelta, poiché essa non corrisponde alle aspettative e rappresenta un peso fisico e psichico spesso intollerabile per la persona.
Per quanto ancora ci siano forti resistenze è necessario implementare la cultura dell’assistenza concentrata sui valori della persona e sulle preferenze individuali, che si incontrino con le decisioni cliniche e terapeutiche le quali non possono più tener conto solo della correzione e del mantenimento dei parametri biochimici.
In uno studio in cui si mettono a confronto la terapia conservativa e la terapia sostitutiva, si evidenzia come le informazioni al paziente siano spesso inadeguate riguardo la propria malattia, la sua progressione e quanto le scelte dei pazienti siano fortemente influenzate dai clinici, sempre tentati dalla medicina difensiva.
Il ricorso alla medicina palliativa per il controllo della sintomatologia e l’accompagnamento alla morte è molto limitato. Inoltre ci sono pochissimi studi in Italia che esplorano l’esperienza del fine vita nei pazienti con Insufficienza Renale Cronica.
Anche se in teoria la medicina contemporanea promuove percorsi di cure incentrati sulla persona, nella pratica c’è ancora molto da fare sul piano della comunicazione della diagnosi e della prognosi, delle opzioni terapeutiche e delle possibili alternative.
Di fatto il modello specialistico orientato al trattamento della malattia non può più essere considerato adeguato alle caratteristiche dei pazienti nefropatici, soprattutto se molto anziani.
Essi richiedono necessariamente un approccio in cui le diverse specialità e professionalità lavorino in modo integrato condividendo e costruendo percorsi di cura (PDTA) e modelli organizzativi con al centro il malato. Si tratta di modelli “circolari”, non più lineari.
Sarebbe inoltre interessante valutare se esistono percorsi formativi sia per medici che per infermieri che non siano più orientati soltanto al trattamento delle acuzie, ma alla gestione della cronicità in tutte le sue fasi, anche nel momento in cui la persona debba essere accompagnata alla morte.