Cure sintomatiche e terapia mirata
Amyloid PET Scan for Alzheimer's Disease - University of California, Department of Radiology and Biomedical imaging
Per molti anni la gestione farmacologica dell’Alzheimer si è basata su farmaci “classici” come gli inibitori delle colinesterasi (donepezil, rivastigmina, galantamina) e l’antagonista NMDA memantina.
Molecole utili per migliorare temporaneamente attenzione, memoria e funzioni cognitive, ma incapaci di modificare il destino biologico della malattia.
Oggi, invece, la ricerca si concentra sul processo patogenetico alla base dell’Alzheimer, puntando a ridurre la formazione e l’accumulo delle placche amiloidi: quelle strutture tossiche che si depositano nel cervello e innescano una cascata neurodegenerativa.
Da questa consapevolezza nascono gli anticorpi monoclonali di nuova generazione, capaci di legarsi alle placche e favorirne la rimozione.
Diagnosi precoce e selezione mirata
Questi trattamenti non sono per tutti. Funzionano e vanno prescritti solo nelle fasi iniziali della malattia, quando il danno neuronale è ancora limitato. Occorre quindi una diagnosi precoce e accurata, supportata da biomarcatori di amiloidosi (PET o liquido cerebrospinale) e da una valutazione genetica del rischio (in particolare il genotipo ApoE4, che aumenta la probabilità di eventi avversi noti come ARIA, ovvero edema o microemorragie cerebrali).
Negli ultimi anni, la ricerca sui biomarcatori dell’Alzheimer ha rivoluzionato l’approccio diagnostico, permettendo di individuare la malattia anni prima della comparsa dei sintomi clinici. Come spiegano il prof. Massimo Filippi e la prof.ssa Federica Agosta (Università Vita-Salute San Raffaele), la biologia della malattia precede i disturbi cognitivi di molti anni, ed è oggi possibile rilevarne i segni attraverso marcatori specifici delle proteine beta-amiloide e tau.
La PET cerebrale e la rachicentesi restano i metodi di riferimento per la misurazione diretta di tali alterazioni, ma sono esami costosi e invasivi. Per questo, la ricerca si sta concentrando su metodi meno invasivi, come i test del sangue: strumenti che consentono di quantificare nel plasma le forme patologiche di amiloide e tau.
Nel maggio 2025, la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato negli Stati Uniti il primo test del sangue specifico per la diagnosi di Alzheimer, destinato a soggetti con declino cognitivo sospetto di età ≥55 anni. Il test misura alterazioni nel rapporto tra p-tau217 e β-amiloide 1-42, offrendo un’indicazione della presenza della malattia con un’accuratezza superiore al 90% rispetto agli esami più invasivi.
In Europa, al momento, non esiste ancora un test equivalente approvato dall’EMA, ma la prospettiva di uno screening accessibile e precoce apre la strada a una diagnosi sempre più tempestiva, elemento chiave per selezionare i candidati idonei ai nuovi trattamenti con anticorpi monoclonali.
Sfide ancora aperte
Gli anticorpi anti-amiloide rappresentano una svolta scientifica, ma la loro introduzione nella pratica clinica porta con sé complessità e interrogativi. Non si tratta di cure risolutive: il beneficio osservato nei trial è un rallentamento del declino cognitivo, non una regressione della malattia. In alcuni casi, il miglioramento può risultare difficilmente percepibile dai pazienti e dai caregiver nella vita quotidiana, sollevando dubbi sulla reale rilevanza clinica rispetto all’impegno assistenziale richiesto.
Anche il profilo di sicurezza impone cautela. Come tutti i farmaci anti-amiloide, Donanemab comporta un rischio significativo di ARIA (amyloid-related imaging abnormalities), cioè edemi o microemorragie cerebrali rilevabili alla risonanza magnetica. Circa un quarto dei pazienti trattati ha manifestato queste alterazioni, per lo più lievi o asintomatiche, ma nel 2% dei casi gli eventi sono stati gravi, con tre decessi attribuiti al trattamento. Particolarmente vulnerabili risultano i portatori della variante genetica ApoE4, che presentano un rischio più elevato di sviluppare ARIA: per questi soggetti, le schede tecniche raccomandano estrema prudenza o esclusione dal trattamento.
A ciò si aggiunge la questione economica. Il trattamento con Donanemab è oneroso: il costo stimato è di circa 12.500 dollari per un ciclo di sei mesi, che può arrivare fino a 50.000 dollari per 18 mesi. Una cifra che, in assenza di rimborsabilità e percorsi strutturati, rischia di limitare l’accesso equo alle cure e di accentuare le disuguaglianze tra pazienti. L’AIFA, per questo, dovrà valutare attentamente sostenibilità, impatto organizzativo e criteri di eleggibilità, per garantire un accesso controllato e appropriato.
Anche sul piano regolatorio permangono differenze internazionali. La FDA statunitense ha approvato Donanemab nel 2024, mentre l’EMA ha autorizzato il farmaco solo nel settembre 2025, dopo un riesame prolungato e con un’indicazione limitata ai pazienti ApoE4 non-portatori o eterozigoti. Una decisione che riflette le incertezze ancora aperte sulla relazione tra rimozione delle placche amiloidi e beneficio clinico tangibile, tema su cui la comunità scientifica continua a confrontarsi.
Nel complesso, questi trattamenti offrono una nuova opportunità terapeutica, ma impongono al sistema sanitario una riflessione etica, clinica ed economica. La promessa di rallentare la malattia deve essere bilanciata da un’attenta selezione dei pazienti, da un monitoraggio rigoroso e da un dialogo trasparente con le famiglie, in un’ottica di presa in carico consapevole e condivisa.
L’importanza della cura globale
Accanto alle terapie biologiche, restano fondamentali gli interventi non farmacologici: riabilitazione cognitiva, stimolazione multisensoriale, attività motoria adattata, supporto psicologico al caregiver. Nessun farmaco, da solo, può sostituire l’importanza di un approccio globale.
L’Alzheimer, infatti, richiede una presa in carico multidimensionale e centrata sulla persona, in cui la terapia farmacologica rappresenta solo un tassello di un mosaico più ampio, fatto di relazioni, competenze e continuità assistenziale.
L’arrivo di lecanemab e donanemab segna una svolta storica, ma anche un banco di prova per la sanità europea e per il Servizio Sanitario Nazionale. Per la prima volta si intravede la possibilità di intervenire sul decorso della malattia, e non più soltanto sui sintomi. Tuttavia, la promessa di queste nuove molecole potrà realizzarsi pienamente solo attraverso una presa in carico integrata, un monitoraggio rigoroso e una solida alleanza terapeutica tra professionisti, pazienti e famiglie.
Più che una rivoluzione farmacologica, si tratta di una trasformazione culturale: ripensare il modo in cui intendiamo la cura, la diagnosi precoce, la formazione degli operatori e la responsabilità condivisa nella salute cognitiva. L’Alzheimer del futuro sarà una sfida non solo clinica, ma anche etica e organizzativa, e il suo successo dipenderà dalla capacità del sistema di coniugare innovazione e umanità, scienza e prossimità, evidenza e ascolto.

