Morte o malattia, non esiste sconfitta. Esistiamo noi, Curati e Curanti
Durante le intense settimane vissute nei luoghi di cura, insieme a persone con bisogni di salute e professionisti, ho avuto modo di entrare in contatto, oltre che con le più sfaccettate forme della malattia, con il fenomeno della morte, della perdita, del lutto e ho avuto l’occasione di essere presente durante le delicate fasi dell’accompagnamento del morente e del supporto alla famiglia.
Più in particolare in queste righe intendo tentare di sviscerare, per una mia esigenza interiore, ciò di cui sono stato testimone come silenzioso osservatore esterno nell’unità operativa di rianimazione e condividere con voi qualche riflessione che spero faccia risuonare in voi, almeno in lontananza, il cosiddetto “Tat Tvam Asi”, ovvero, il “Quello sei tu”.
In seguito al peggioramento delle condizioni generali della persona, ormai non più sottoposta né a sedazione né a ventilazione artificiale tramite intubazione oro-tracheale e irreversibilmente comatoso, e all’esaurimento delle possibilità terapeutiche da parte dei medici si è deciso per l’avvio di un percorso di accompagnamento alla morte.
Il personale infermieristico ha avvisato precocemente i familiari della persona in modo tale che fossero presenti durante le ultime ore di vita del loro caro, rispettando così il principio di caring della famiglia, concepita come elemento fondamentale nella vita dell’assistito e come insieme di individui che condividono un legame storico, emotivo e sociale. Ha, inoltre, collaborato con il personale medico per quanto concerne la comunicazione ai familiari della condizione clinica del loro caro.
Dopo aver sospeso gran parte della terapia messa in atto con l’intento di supportare le funzioni vitali, in quel frangente pressoché inutile, si è prestato attenzione a dare al paziente il maggior grado possibile di comfort fisico tramite la gestione farmacologica dei segni e sintomi caratteristici nei pazienti terminali, come il respiro rantolante, la dinamica respiratoria inefficace e il possibile dolore provato, in modo tale da preservare così la dignità della persona.
Durante l’intero processo di accompagnamento, fino al sopraggiungere della morte, l’infermiere ha inoltre svolto un monitoraggio periodico delle condizioni del paziente identificando ulteriori segni di sofferenza, in modo tale da agire, in collaborazione con il medico, per quanto riguarda la rivalutazione del corretto quantitativo di morfina da somministrare nell’arco del tempo.
Gli infermieri hanno gestito la preparazione del paziente per l’arrivo dei parenti: igiene del corpo e del cavo orale, rasatura della barba, sistemazione dei capelli, riposizionamento a letto, sistemazione dell’intera postazione e rimozione dei presidi inutili in quel momento.
Il personale ha avuto poi l’accortezza di disattivare alcuni allarmi del monitor multi-parametrico, che altrimenti avrebbero continuato a suonare, dati i parametri vitali incompatibili con la vita. Dopodiché gli infermieri hanno fatto in modo che la stanza del paziente fosse “isolata” dal resto del reparto e hanno posizionato al suo interno qualche sedia in modo tale da garantire ai famigliari un ambiente il quanto più possibile comodo, intimo, di raccoglimento. Inoltre, è stato chiesto se il loro caro in punto di morte o loro stessi desiderassero la presenza di un sacerdote o di uno psicologo durante quegli ultimi istanti di vita.
In questi casi l’importanza di mettere al centro l’assistito e soprattutto, dato lo stato di incoscienza del paziente, la famiglia (concepita nel senso più ampio possibile) si manifesta più forte che mai: dobbiamo considerare le persone coinvolte nella loro globalità, accogliendone le emozioni, la sofferenza, gli ultimi desideri, le preoccupazioni, i vissuti famigliari e la visione filosofico-religiosa che dona significato alla loro vita e caratterizza il loro rapporto con la malattia e la morte.
Bisogna saper leggere tra le righe dell’animo dell’Altro (o quanto meno avere l’interesse di provare a farlo al meglio), comprendere l’immensità muta che si cela dietro i gesti che tradiscono la fragilità, al di là del corpo chiuso, dello sguardo spento, delle emozioni che prendono il sopravvento
Ci viene richiesto di essere “testimoni presenti” di momenti di vulnerabilità, individuale e collettiva, in modo rispettoso e delicato, sapendo cogliere, tra il costante ascolto, l’attimo giusto per una parola o un gesto significativo, in un tempo che richiede, rauco, il più vissuto dei silenzi.
Il tocco infermieristico
Mi è rimasto impresso il modo in cui la mia guida di tirocinio prendeva per mano il paziente per qualche attimo, dopo essersi avvicinata per sistemare la pompa siringa in infusione continua o per somministrare la morfina. Oppure di come sistemava le lenzuola, le flebo e gli occhialini con movimenti gentili, premurosi.
Il suo tono di voce risuonava caldo e accogliente nel silenzio invernale, surreale, della stanza. Piccoli gesti di vicinanza emotiva, pratica empatica che fa sentire, in molti, un po’ meno soli, un po’ più connessi. In queste situazioni il tocco infermieristico che prevale è quello empatico, più che quello tecnico.
Uno sfiorare l’Altro che si nutre di conoscenze e competenze psicologiche, sociologiche e squisitamente umanistiche, oltre che dell’interiorità del professionista
Un giorno, durante le mie ore di formazione, un infermiere in reparto mi disse: Non devi fare o dire molto, anche perché non c’è molto da fare o da dire. A loro basta davvero poco per sentirsi un po' meno soli in quel momento. Devi far sì che quel poco che è in tuo potere faccia, per loro, la differenza
.
Nonostante l’incapacità del paziente di percepire sé stesso, gli altri e tutto ciò che il mondo circostante stava facendo per prendersi cura di lui, l’infermiere ha comunque dato voce a quel bisogno di intimità, di vicinanza, di empatia.
Ha messo in pratica la Cura: essa non sgorga asettica da ciò che sta al di fuori di noi, bensì prende il colore di ciò che siamo, come Curanti ed Esseri Umani e come potenziali malati, curati e morenti. E anche quando, su quel letto, non rimane nient’altro che un corpo mutacico, l’infermiere ha la premura di nutrire quel bisogno di intimità prendendosi cura della salma e del valore simbolico che essa porta con sé per tutti coloro che hanno amato l’animo che quel corpo custodiva e celava.
Il nostro mandato non si conclude con la morte dell’assistito
Esso, successivamente, si compie anche nella presa in carico del vissuto luttuoso della famiglia e, come cita l’Articolo 27 del Codice Deontologico, nella custodia del segreto professionale nonostante la morte dell’assistito. È un principio vissuto non solo come obbligo legislativo, ma soprattutto come valore di intimo rispetto nei confronti del patto di cura instaurato con l’assistito fino al suo ultimo respiro esalato.
Come scriveva Marco Tullio Cicerone: Vita mortuorum in memoria est posita vivorum
, ovvero la vita dei morti sta nella memoria dei vivi
. Dobbiamo prenderci cura anche di coloro che rimangono e ricordano, e che ricordando vivono nell’animo la perdita di un loro amato e con esso, di una parte di loro stessi.
La perdita sconquassa la vita nelle sue fondamenta e un lutto può portare alla malattia, nel corpo e nella mente, se non viene elaborato in modo virtuoso. Quindi, come infermieri, è nostro compito, in collaborazione con le figure professionali psicologiche e psichiatriche, prenderci cura del vissuto e dell’elaborazione della persona riguardo alle sue innumerevoli morti, simboliche e fisiche.
E noi stessi, studenti e professionisti, dovremmo riflettere su ciò che generano in noi le infinite finitezze con cui entriamo in contatto giorno dopo giorno, per non cadere tra qualche anno nel più freddo dei cinismi.
Ma la verità, forse, è che dovremmo iniziare a concepire il nostro lavoro per quello che essenzialmente è, ovvero prenderci cura di un Altro lungo tutto l’arco della vita e della morte, e non come finalizzato a Salvare l’Altro, a sconfiggere una volta per tutte la malattia e la morte.
Il nostro rapporto umano e professionale con la morte e la malattia non ha nulla a che vedere con la retorica deleteria della “guerra”, della battaglia vinta o persa. Esso ha più a che vedere con la natura del dialogo: non possiamo fare altro che chiedere loro un po’ più di tempo, di attardarsi a raggiungerci nel luogo e nel tempo in cui siamo, e in cui si trova il nostro assistito. Ma una richiesta dona l’ultima parola a colui a cui è rivolta.
Nessuno è destinato, qui e forse da nessuna parte, alla salvezza, all’eterna astensione da elementi dolorosi dell’esistenza come quelli descritti. Ognuno di noi si dirige verso l’ignoto da cui, con tutte le sue forze, distoglie lo sguardo per una vita intera. Occorre ricordarsi, nella tranquilla e frugale prosperità della propria vita, delle buie miserie che ci circondano e ci attendono. E, al tempo stesso, necessitiamo di accorgerci della luce che brilla, come una mano gentile che ne sfiora un’altra o la Cura fatta di gesti e parole sotto il nostro diretto controllo, quando la miseria pare sia l’unica cosa che ci sovrasta e ci colma. Ne va della nostra misura.
Scriveva Lucio Anneo Seneca riguardo al nostro rapporto con la morte: Moriamo ogni giorno: ogni giorno ci viene tolta una parte della vita e anche quando ancora cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è ormai perduto; anche questo giorno che stiamo vivendo lo dividiamo con la morte. Come la clessidra non è vuotata dall’ultima goccia d’acqua, ma da tutta quella defluita prima, così l’ora estrema, che mette fine alla nostra vita, non provoca da sola la morte, ma da sola la compie; noi vi giungiamo in quel momento, da tempo, però, vi siamo diretti
.
In questo nostro Tempo dialogico con la morte, la nostra e quella degli Altri, noi Infermieri siamo responsabili di un altro Tempo, complementare al primo: Il tempo di relazione, il tempo di cura. Non esiste sconfitta nella morte o nella malattia, esiste l’uomo. Esistiamo noi, Curati e Curanti.