Regione Emilia-Romagna sotto pressione: la mobilità sanitaria tra limiti e carenza di personale

Scritto il 10/11/2025
da Redazione

Le recenti dichiarazioni del Presidente De Pascale, in cui ha espresso l’impossibilità da parte della Regione Emilia-Romagna di continuare a gestire un numero così elevato di pazienti provenienti da altre regioni, stanno suscitando un acceso dibattito. Prima di entrare nel merito tecnico, è importante chiarire l’aspetto politico: non si tratta di una posizione protezionistica sul modello Lega o Trump. Le parole del Presidente ‘non possiamo più’ e non ‘non vogliamo più’ vanno interpretate in relazione a una reale impossibilità gestionale, non come un atto di chiusura pregiudiziale verso i cittadini di altre regioni.

Il nodo del finanziamento

Dal punto di vista tecnico, è utile ricordare come funziona il finanziamento delle regioni per l’erogazione dei servizi sanitari. Se una percentuale del budget deriva da risorse proprie come le addizionali IRPEF, la quota principale proviene da fondi statali ripartiti secondo la cosiddetta “quota capitaria pesata”.

Questo meccanismo assegna a ciascuna regione risorse in funzione del numero dei residenti, ponderato per età, prevalenza di malattie e altri fattori epidemiologici.

È quindi chiaro che una regione riceve fondi per garantire l’assistenza ai propri cittadini, non a quelli provenienti da tutto il territorio nazionale. Se da un lato esistono meccanismi di compensazione economica per le prestazioni erogate ai pazienti fuori regione, dall’altro va ricordato che tali rimborsi vengono liquidati con un ritardo medio di circa due anni.

Inoltre, in alcuni casi, questi rimborsi risultano parziali o addirittura mancanti, aggravando ulteriormente la sostenibilità economica delle regioni che accolgono un alto numero di pazienti da fuori. Ma al di là del piano economico, ciò che diventa cruciale è l’impatto organizzativo.

Il paradosso della mobilità sanitaria

A tutto ciò si aggiunge un paradosso evidente: le regioni del Sud, da cui partono molti cittadini in cerca di cure altrove, sono comunque tenute a sostenere i costi per mantenere aperte le proprie strutture, pur vedendo parte delle risorse “trasferirsi” indirettamente verso altre regioni sotto forma di rimborsi. È un doppio onere che pesa moltissimo su sistemi sanitari regionali già fragili.

Ed è ancora più sorprendente scoprire che la maggior parte delle prestazioni erogate in mobilità attiva non riguarda interventi complessi, ma procedure di routine o a bassa complessità. È allora legittimo chiedersi se sia normale che un cittadino debba percorrere 700 chilometri per un intervento al menisco.

Conclusioni

La questione sollevata dal Presidente De Pascale non è solo un grido d’allarme regionale, ma un campanello che dovrebbe risuonare a livello nazionale. È urgente ripensare i meccanismi di finanziamento e programmazione del Servizio Sanitario Nazionale, promuovendo un riequilibrio strutturale tra Nord e Sud, tra capacità di offerta e flussi di domanda.

Servono investimenti adeguati, maggiore flessibilità normativa e un impegno condiviso per garantire che ogni cittadino, ovunque risieda, abbia accesso a cure di qualità nel proprio territorio. Solo così potremo evitare che la mobilità sanitaria, da strumento di libertà di cura, si trasformi in un sintomo di disuguaglianza territoriale e di inefficienza complessiva del sistema.

  • Articolo a cura di Danilo Di Lorenzo - Coord. Centro regionale Emilia Romagna HTA Dispositivi medici | Strategia, evidenze e sostenibilità per l’innovazione sanitaria pubblica