Osservando la sanità italiana, colpisce una dinamica ricorrente: le professioniste che sostengono la parte più ampia dell’assistenza clinica raramente hanno accesso ai livelli in cui si decide come quell’assistenza sarà organizzata.
È una separazione sottile, ma profonda: tra chi conosce i bisogni reali del sistema e chi ne definisce l’architettura. Questa distanza non riguarda solo la rappresentanza: riguarda la cultura professionale del nostro Paese.
E ci obbliga a domandarci se la marginalità decisionale della professione infermieristica sia un effetto collaterale del sistema, o piuttosto un suo limite strutturale. La risposta a questa domanda definisce molto più di quanto pensiamo: definisce che tipo di sanità vogliamo essere.
Una professione femminile
La fragilità del sistema sanitario nazionale dipende dal fatto che non valorizziamo abbastanza le competenze che già abbiamo
L’infermieristica italiana è una professione nettamente femminile: circa il 76–77% degli iscritti all’Albo sono donne , e le donne rappresentano quasi il 70% di tutto il personale del sistema sanitario nazionale.
Eppure, questa presenza massiva non trova riscontro nei ruoli di vertice: solo un terzo delle cariche apicali nelle Aziende Sanitarie è affidato a donne , e nei ruoli clinici di responsabilità, primariati e direzioni di struttura, la quota scende a circa il 22–23%. Il quadro internazionale conferma il trend: a fronte di una forza lavoro globale composta per il 70% da donne, solo un quarto delle posizioni senior è ricoperto da professioniste .
Questa distanza non dipende dal merito, ma da una struttura storica che ha relegato la cura , soprattutto quando svolta da donne, a “vocazione” , più che a competenza tecnico-organizzativa. Ne derivano percorsi di carriera poco permeabili, assenza di mentoring, scarsa presenza nei board e selezioni che privilegiano profili tradizionalmente maschili.
Il risultato è un cortocircuito : la professione numericamente più presente nei servizi è quella meno rappresentata nelle decisioni. E questo non penalizza solo le infermiere, ma l’intero sistema sanitario: riduce la qualità della governance, indebolisce l’aderenza dei modelli organizzativi alla realtà dei servizi, ostacola la retention e limita la capacità del Ssn di sfruttare appieno competenze cruciali per la continuità assistenziale.
Per invertire la rotta servono tre leve: trasparenza nei dati di genere, percorsi di leadership infermieristica strutturati, una reale rappresentanza nei luoghi decisionali . Solo così la presenza femminile, oggi predominante, potrà finalmente tradursi in influenza, visione e potere decisionale.
Il rapporto ILO–OMS non lascia spazio a interpretazioni: nel mondo, le donne che lavorano in sanità , e tra queste la maggioranza sono infermiere, continuano a guadagnare meno degli uomini . Non c’entra l’impegno, non c’entrano i titoli: c’entra la persistenza di un’idea antica, quella che lega il lavoro di cura a una sorta di predisposizione naturale, e quindi non lo riconosce davvero come competenza tecnica ad alto valore.
Da noi, questo quadro si intreccia con un’altra evidenza: in molti contesti italiani, la retribuzione infermieristica rimane sotto la media nazionale dei lavoratori .
Risultato: per una donna infermiera il divario diventa doppio. Il gap non è soltanto salariale, ma culturale e professionale.
È una situazione che non possiamo più derubricare a “problema cronico del sistema”.
Se il nostro sistema sanitario non riesce a trattenere le professioniste, se fatica a offrire percorsi di crescita, se vede aumentare la migrazione verso altri Paesi, il motivo è chiaro: non stiamo riconoscendo il valore dell’assistenza infermieristica come un asset strategico . E ciò che non è valorizzato economicamente, raramente diventa centrale nelle scelte di governance.
Di fronte ai numeri e alla centralità operativa del nursing, la domanda è inevitabile:
com’è possibile che una professione che sostiene l’intero impianto assistenziale sia così poco rappresentata nei luoghi dove quell’impianto viene progettato?
La risposta non sta nell’ambizione individuale, ma nelle strutture organizzative. Le carriere infermieristiche rimangono in gran parte lineari e frammentate; raramente prevedono passaggi chiari verso ruoli direttivi. Questo significa che chi desidera crescere deve spesso farlo “nonostante” il sistema, non grazie a esso .
E quando crescita professionale, carichi familiari e turni imprevedibili si incontrano, la rinuncia diventa quasi una scelta obbligata.
Ma ciò che appare come una rinuncia individuale diventa un limite collettivo: senza una leadership infermieristica forte, la sanità rischia di programmare servizi che non riflettono le esigenze reali né le criticità operative del lavoro di cura.
Arrivati a questo punto, la domanda è inevitabile: come si traduce tutto questo in cambiamento reale?
La buona notizia è che non parliamo di riforme impossibili o di orizzonti lontani. Parliamo di azioni concrete, già sperimentate altrove, che l’Italia può mettere in atto da subito.
La nuova direttiva europea sulla trasparenza salariale non è un dettaglio burocratico: è una leva politica.
Se le Aziende sanitarie pubblicassero ogni anno i differenziali retributivi per genere, profilo e area assistenziale, sarebbe più facile individuare dove e perché si generano le disuguaglianze.
La trasparenza non risolve tutto, ma costringe le organizzazioni a guardarsi allo specchio. E spesso è il primo passo per cambiare.
Riconoscere davvero la complessità del lavoro infermieristico significa ammettere che non tutti i contesti assistenziali sono uguali. Chi opera in aree critiche, nella cronicità complessa o con tecnologie avanzate affronta un livello di responsabilità che non può essere retribuito come un’attività a bassa intensità.
Il nuovo contratto ha introdotto indennità dedicate , ma la vera partita si giocherà nella loro applicazione: come le Regioni le attiveranno, con quali criteri, e se saranno davvero proporzionate alla complessità reale del lavoro. Non è un premio: è un necessario riallineamento tra ciò che gli infermieri fanno e ciò che il sistema riconosce. Senza questo equilibrio, il rischio è perdere competenze che il Ssn non può permettersi di disperdere .
La leadership non nasce spontaneamente , e soprattutto non nasce in assenza di percorsi.
Servono programmi regionali dedicati, mentoring strutturato, selezioni trasparenti per gli incarichi organizzativi, e un principio semplice: nessun board aziendale dovrebbe essere privo di una rappresentanza infermieristica qualificata.
Non parliamo di “quote rosa”, ma di competenze indispensabili ai processi decisionali.
Il gender gap non si riduce con dichiarazioni d’intenti , ma con scelte organizzative che incidono sulla vita lavorativa reale. Servono turni programmati con sufficiente anticipo, forme di part-time realmente reversibili e non penalizzanti, percorsi formativi accessibili anche dopo periodi di assenza, e strumenti di supporto per chi ha responsabilità di cura.
Alcune Aziende sanitarie hanno già introdotto esperienze pilota in questa direzione, dimostrando che quando la conciliazione è considerata una leva organizzativa (e non un’agevolazione individuale) migliora la retention, si riduce l’assenteismo e si mantiene il patrimonio di competenze. La conciliazione, dunque, non riguarda “le donne”: riguarda la capacità del sistema di trattenere professionalità qualificate e di garantirsi continuità ed efficienza nel lungo periodo.
La parità non è un tema “per donne” La fragilità del sistema sanitario nazionale non dipende soltanto dalla scarsità di personale. Dipende dal fatto che non valorizziamo abbastanza le competenze che già abbiamo .
L’infermieristica è la professione che più garantisce continuità di cura, relazione, qualità. Eppure resta poco presente dove si decidono le traiettorie dei servizi, dei modelli assistenziali, dei budget.
Ridurre i divari, economici e decisionali, non è un gesto riparativo: è un investimento sul futuro.
Significa costruire un sistema più lucido, più attrattivo, più capace di rispondere alle nuove complessità.
Significa proteggere chi cura e, di conseguenza, proteggere chi è curato.
E allora la domanda diventa inevitabile:
vogliamo continuare con un sistema “delivered by women”, ma raramente “led by women and nurses”?
Se la risposta è no, allora dobbiamo spostare lo sguardo: la parità non è un tema collaterale, è una leva strategica.
E portare la professione infermieristica al centro delle scelte non è solo giusto: è ciò che serve per costruire una sanità capace di guardare lontano.