La parola chiave per capire a chi si rivolge l’IF/C è fragilità
L’attivazione della figura infermieristica, in merito, è fortemente legata all’assistenza delle persone positive al Sars-Cov-2 e va ad esplicarsi sia all’interno delle USCA sia nei servizi territoriali delle cure primarie. Queste rappresentano il contesto elettivo dell’IF/C in ogni sua espressione: Case della Salute, servizi domiciliari e ambulatoriali ed ogni ambito in cui la prevenzione e la promozione della salute, l’educazione e l’assistenza sanitaria, quali espressioni del tessuto e della vita sociale, lo richiedano. Il tutto in un quadro di stretta collaborazione con i servizi sociali e la Medicina Generale.
Il Sole 24 ore Sanità, a commento delle linee di indirizzo, dà risalto alle precisazioni della FNOPI per la quale l’IF/C non è una figura finalizzata a garantire unicamente prestazioni sanitarie, come nel caso dell’AID e dell’ADI e non è un infermiere di studio medico.
Il professionista rappresenta in questo la dimensione proattiva dell’assistenza lungo un percorso di integrazione socio-sanitaria, di connessione delle risorse sul territorio, nodo importante della rete dei servizi nella dimensione della complessità ed unicità della presa in carico dei bisogni.
Si dà seguito, in tal modo, alle indicazioni più volte sollevate in tema di modelli assistenziali del Chronic Care Model, del Population Health e del Management del Welfare Comunitario fino ai deliberati presenti nello stesso Patto per la salute del 2019-2021.
La parola chiave per capire a chi si rivolge l’IF/C è fragilità, utile nell’interpretazione della domanda di salute e nel focalizzarsi su settori specifici della popolazione, senza per questo, creare categorizzazioni di sorta. Lungo questa prospettiva, i soggetti di riferimento appaiono essere gli anziani e le problematiche della cronicità, i minori e la copertura del bisogno assistenziale all’interno degli istituti scolastici, le persone non autosufficienti e il mondo della residenzialità. A sottolineatura di questo passaggio il documento parla di stratificazione del bisogno legando gli interventi alle risorse del contesto e alle peculiarità individuali.
L’IF/C è chiamato così a mettere in campo non solo le classiche conoscenze clinico-assistenziali, ma rinnovate capacità comunicative e relazionali che, troppo spesso, in ruoli meramente prestazionali, è costretto ad accantonare. Già da tempo sono stati istituiti Master per questa figura, ma negli ultimi quindici anni sono apparsi in maniera minimale e discontinua, a macchia di leopardo, nel tessuto formativo a livello nazionale.
Per il futuro l’augurio è lo sviluppo ulteriore di tali percorsi formativi cui, per il momento, sono di necessario preambolo, come si afferma sempre nel documento della Commissione, attestati di formazione specifica svolta a livello aziendale ed anche la necessaria esperienza lavorativa (non inferiore ai due anni) sul territorio.
Non c’è che dire. Il documento è un importante passo avanti verso la tutela della salute e del diritto all’accesso alle cure e all’assistenza in maniera equa ed universalista, a partire dal contesto principale di riferimento: il territorio. Questo però non può far riferimento ad una lettura soggettiva, da operatore-dipendente in cui ci si aspetta chissà quali miracoli da parte dell’infermiere di famiglia. Se i suoi compiti rispondono alla dimensione di un’assistenza proattiva e i suoi referenti sono i soggetti fragili, la figura dell’IF/C deve vedere crescere e cambiare attorno a sé tutta l’attuale strutturazione dei servizi, molto spesso costituiti in impermeabili camere stagne, che comunicano poco fra loro, molto spesso sono farraginosi, burocratici e ripetitivi per certi settori del bisogno, e totalmente assenti per altri.