Per rendere attrattiva la professione infermieristica servono soldi
Una questione da tempo sollevata in maniera articolata che vorrebbe per la professione:
- l’acquisizione di maggior peso sociale, sul piano della stratificazione verso l’alto
- più rilevanza sindacale, con la creazione di una contrattazione legata ad un comparto riservato
- crescita salariale, legata ad un aumento delle attuali retribuzioni, poco attrattive e, sotto certi aspetti, che rischiano di fare dell’infermiere un altro appartenente alla categoria dei working poor
Alcuni aggiungono, inoltre, una visione che lega la riduzione di iscrizioni al CdL di Infermieristica ad un calo che riguarda tutta la formazione terziaria, la quale tenderà ad acuirsi in futuro a causa del calo demografico che sta investendo l’Italia.
Una lettura decisamente più brutale ed immediata della precedente che prospetta per il Bel Paese, nell’arco di una generazione, una grave carenza di professionisti specializzati, quadri, tecnici, accademici e scienziati. Prospettiva che imporrà una sorta di “importazione” della classe dirigente necessaria per le italiche terre. Altro che andare in Sudamerica a cercare infermieri, paura della sostituzione etnica e corbellerie varie.
La realtà è decisamente più complessa di quanto si possa cercare di rappresentarla, ed in questo la professione infermieristica si comporta, come sempre, da puntuale indicatore sociale delle criticità del tempo attraversato.
La sintesi cui riferirsi può essere relativa a due aspetti peculiari. In primo luogo, c’è la questione della stessa formazione universitaria in Italia come luogo di creazione della classe dirigente del paese e di trasmissione dei saperi. Segue poi la strutturazione stessa la società nella sua composizione relativa alla dimensione quantitativa della classe media.
L’istruzione universitaria nel nostro paese da sempre ha molti problemi
L’Italia rispetto ai paesi OCSE, nel 2021, presenta nella fascia delle persone comprese fra i 25 e i 64 anni, una numerosità molto bassa di laureati, a livello del 20%, in pratica la metà della media dei paesi OCSE (41%), ed in questo assumono rilevanza anche i dati occupazionali, salariali e sociali di riferimento del sistema paese relativo ai titoli universitari.
La tendenza è stata sempre a favore di quei percorsi più premianti in termini di reddito e di prestigio: meglio il medico piuttosto che il filosofo. Un quadro che è stato complicato però dai gravi cambiamenti intercorsi nella società italiana in tema di sostegno all’istruzione e di risorse disponibili per accedere alla stessa da parte della popolazione.
Da parte dello Stato italiano, in relazione alle università pubbliche, viene mobilizzato per la formazione universitaria appena il 1,5% della spesa pubblica contro il 2,3% dei paesi UE e il 2,7% dei paesi OCSE. Nella sostanza a livello pubblico si sostiene la formazione terziaria per il 61%, meno dell’OCSE (67%) e della UE (76%), con una ricaduta economica importante sulle famiglie, che si fanno carico del 33% delle spese, contro il 14% della UE e il 22% dell’OCSE.
In tale ottica risalta quindi la questione della capacità delle famiglie italiane di sostenere un figlio all’università che implica mobilizzazioni economiche per un affitto da pagare, le tasse di iscrizione da versare, l’acquisto dei libri, il pendolarismo di eventuali spostamenti dalla residenza alle sedi accademiche, che in molti casi supera le due ore, e molto altro ancora.
Inoltre, va ricordato che gli enti pubblici a sostegno dell’istruzione riesco a garantire un posto ogni studente fuorisede. Il tutto all’interno di un contesto sociale che ha visto l’impoverimento progressivo delle famiglie che ha avuto di conseguenza importanti ricadute sulla capacità di mantenere un figlio agli studi.
Insomma, prima che l’inverno demografico faccia sentire il suo peso in futuro, nel presente è l’impoverimento del ceto medio, la sua progressiva erosione, a rendere sempre più difficile l’accesso all’istruzione terziaria. Un quadro finale peggiorato ulteriormente da fenomeni come abbandono scolastico e la perdita di fiducia in un paese in cui la classe dirigente è sempre più rappresentativa di sé stessa e delle favole che racconta, assieme alla presenza di 100.000 giovani reclusi in casa come vittime dell’hikikomori, o delle migliaia che fanno lavori malpagati e insicuri pur di mantenersi, con difficoltà e di provare a studiare con enorme difficoltà.
In tal senso non sono pochi gli studenti di Infermieristica che lavorano con salari, tempi di impiego e condizioni che rendono molto difficile il percorso della triennale che, molto spesso, si prolunga di uno, due, se non di tre anni, quando non è causa di un inevitabile, quanto sofferto abbandono dei percorsi di studio.
La consapevolezza di quanto scritto fin qui importa necessariamente ad una ulteriore chiarificazione delle questioni che risaltano come indissolubilmente legate alla collocazione all’interno di una classe sociale della stessa professione infermieristica.
In estrema sintesi questa si presenta come una professione la cui preparazione è da ceto medio, ma che si rivolge da sempre, ed oggi più che mai, ai ceti propri della classe lavoratrice – una volta si sarebbe detto proletariato – i quali hanno risorse umane e motivazionali molto forti per affrontare una vita da infermiere, ma hanno, per contro, una condizione economica decisamente sofferente.
Un fatto che dovrebbe far ripensare a molte cose legate ai percorsi formativi, ma in primo luogo al fatto di come questi dovrebbero essere maggiormente sostenuti sul piano economico a favore della stragrande maggioranza di studenti futuri infermieri. Come già detto in altre occasioni, si ritorna al concetto delle borse di studio del passato, ma che oggi dovrebbero prevedere maggior sostegno sia alla quotidianità di vita, sia alle spese per gli affitti dei fuorisede, il trasporto pubblico, i testi e molto altro ancora.
Insomma, per rendere attrattiva la professione infermieristica forse è necessario farsi carico delle sue tante problematiche economiche esistenti a partire dai luoghi e dai percorsi della formazione e dalla ineluttabile fine del ceto medio, così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi