La sopravvivenza all'arresto cardiaco extraospedaliero, anche dopo la RCP, potrebbe essere influenzata dall'etnia e dal genere. È quanto sostiene l'autore di un articolo pubblicato su Jama riportando i risultati di alcune recenti ricerche mediche che, pur sollevando preoccupazioni circa pregiudizi impliciti o espliciti, confermano come gli astanti che assistono ad un arresto hanno meno probabilità di eseguire la rianimazione cardiopolmonare se la persona crollata a terra è di colore o di sesso femminile. Lo studio “Race and sex difference in the association of Bystander CPR for cardiac arrest”, presentato lo scorso agosto su Circulation, ha fornito la prova che anche tra coloro che ricevono le manovre rianimatorie, gli individui di colore o di sesso femminile hanno meno probabilità di sopravvivere ad un arresto cardiaco extraospedaliero rispetto agli individui bianchi o di sesso maschile. Secondo gli autori, sono comunque necessarie ulteriori ricerche per spiegare tali disparità nella sopravvivenza nonché una migliore formazione per colmare queste lacune.

Studio su differenze di sopravvivenza dopo RCP legate ad etnia e genere

Secondo un articolo pubblicato su Jama etnia e genere possono influenzare la sopravvivenza all'arresto cardiaco.

Secondo il Cardiac Arrest Registry to Enhance Survival (CARES), un database web sviluppato nel 2004 dal CDC e dal Dipartimento di medicina d'urgenza della Emory University School of Medicine, sono circa 350mila le persone che ogni anno negli Stati Uniti subiscono un arresto cardiaco extraospedaliero e soltanto circa 1 persona su 10 sopravvive, una percentuale che non è cambiata negli ultimi 30 anni.

Il nuovo studio ha identificato su Cares una coorte di circa 624 mila arresti cardiaci extraospedalieri non traumatici tra il 2013 e il 2022, con un'età media di 62 anni e, per un terzo, donne. Dall'analisi della coorte risulta che circa metà era bianca, che il 21% era di colore, che più di 4 arresti cardiaci su 5 si sono verificati a casa e che circa il 9% dei pazienti è sopravvissuto e ha potuto lasciare l'ospedale, la maggior parte con disabilità neurologica moderata o nulla.

Risulta che gli astanti che non erano personale dei servizi medici di emergenza hanno eseguito la RCP in circa il 40% dei casi di arresto cardiaco, che è la stessa percentuale costantemente osservata negli Usa. Sebbene la RCP degli astanti sia stata associata ad una probabilità di sopravvivenza complessiva più elevata del 28%, in ogni gruppo etnico, i pazienti neri e le donne, tuttavia, sembravano trarne meno beneficio.

I pazienti bianchi avevano inoltre il 33% di probabilità in più di sopravvivere se ricevevano la RCP da parte di un astante rispetto a chi non la riceveva. Tra gli individui neri invece soltanto il 9% migliorava la propria sopravvivenza dopo RRC praticata dagli astanti, nettamente inferiore rispetto a quella registrata per altri gruppi etnici.

Dallo studio è emerso inoltre che, sebbene la RCP praticata dagli istanti fosse associata ad un significativo aumento della sopravvivenza sia tra gli uomini che tra le donne, tale associazione era più alta negli uomini, il 35% rispetto al 15% nelle donne. Le disparità risultano particolarmente evidenti tra le donne nere e gli uomini bianchi. Se per i bianchi di genere maschile i guadagni di sopravvivenza garzie alla RCP erano del 41%, per le persone mere di genere femminile il beneficio era soltanto del 5%. Secondo gli autori dello studio tali risultati non sono spiegati da determinanti come la diversità etnica in base al livello di reddito, né al pregiudizio o ai tempi più lunghi di RCP o all'arrivo del personale di pronto intervento. Le differenze di tempo sono state infatti considerate modeste tra individui bianchi e neri e non c'erano differenze tra uomini e donne. Si ritiene che sia piuttosto la RCP eseguita in maniera impropria a contribuire probabilmente ai diversi benefici della pratica rianimatoria sulla sopravvivenza.

Si è inoltre evidenziata una differenza tra il 3% di sopravvivenza dei pazienti neri in arresto a casa rispetto al 30% che sopravvivevano se crollavano in pubblico. Ciò significa che anche per donne e persone di colore la probabilità di sopravvivere ad un arresto cardiaco è maggiore se l'evento avviene in un luogo pubblico. Si è inoltre dimostrato che i tassi di sopravvivenza più bassi dopo la RCP tra i pazienti neri e di sesso femminile non sono dovuti nemmeno alla presenza di patologie preesistenti.

Gli autori ritengono che un fattore contribuente sia quindi una differenza dei metodi di formazione sulla rianimazione cardiopolmonare, suggerendo che servirebbero maggiori campagne di massa anche con programmi di formazione online più brevi o programmi di formazione tenuti negli stadi di calcio se si potesse assicurare la stessa efficacia di quella ottenuta dalla formazione standard.

Suggeriscono inoltre che durante l'addestramento un uso più diffuso di manichini che assomigliano al corpo delle donne e riflettono altre razze ed etnie potrebbero normalizzare la risposta dei soccorritori non professionisti e migliorare la qualità della RCP praticata dagli astanti.

Ritengono infatti che, quando le persone imparano ad eseguire la RCP, si dia spesso per scontato che le dimensioni del busto di tutti siano uguali. Imparare a fare la RCP solo su manichini dal torace piatto non rappresenta la preparazione ottimale per praticarla sulle donne. Si potrebbero pertanto mettere dei seni sintetici sui manichini.

Dalle ricerche emerge infatti che le persone si allontanano da quelle con i seni come fossero riluttanti a toccare una donna nella zona del petto ma in caso di emergenza, sottolineano gli autori, non ci si deve preoccupare perché questa persona sta morendo. Hanno inoltre rilevato che, sebbene gli interventi di formazione abbiano aumentato i tassi di esecuzione della RCP e di defibrillazione precoci sia nei soggetti neri che bianchi, la sopravvivenza è migliorata significativamente solo tra i pazienti bianchi.

Dallo studio si è osservato infine che soltanto il 20% delle persone colpite da arresto cardiaco extraospedaliero presenta un ritmo defibrillabile e che questa percentuale sta diminuendo. Gli esperti spiegano che i ritmi cardiaci defibrillabili si riscontrano generalmente in persone con un muscolo cardiaco relativamente sano che hanno avuto un infarto miocardico a causa di un coagulo di sangue che ha bloccato un'arteria, mentre i ritmi cardiaci non defibrillabili derivano da condizioni che interessano l'intero muscolo cardiaco, come la cardiopatia.

Le probabilità che un individuo abbia un ritmo cardiaco non defibrillabile aumentano in caso di età avanzata e comorbilità come la broncopneumopatia cronica ostruttiva, l'ipertensione e il diabete.

Sebbene in circa il 10% dei casi la RCP possa convertire i ritmi cardiaci non defibrillabili in ritmi defibrillabili, gli sforzi di rianimazione risultano tuttavia più efficaci per coloro che hanno un ritmo defibrillabile e, inspiegabilmente, le pazienti di sesso femminile e i pazienti neri hanno meno probabilità di avere tale ritmo.

Secondo le conclusioni degli autori, più persone devono imparare la RCP e non esitare ad eseguirla se vedono qualcuno svenire ma devono farla bene, in maniera efficace per tutti, indipendentemente dall'etnia o dal sesso dell'individuo. Per raggiungere tale obiettivo serve senz'altro una formazione migliore.

Occorre aumentare la percentuale di popolazione addestrata e disposta a praticarla, raggiungendo una percentuale ottimale come quella ottenuta in Danimarca, dove l'80% della popolazione ha ricevuto una formazione sulla RCP (in quanto le persone devono dimostrare di aver completato e superato un corso di RCP prima di poter ottenere la patente di guida) o in Norvegia, dove l'85% di tutti i pazienti che subiscono un arresto cardiaco extraospedaliero riceve la RCP da parte degli astanti prima dell'arrivo dell'ambulanza.