Accorgersi della propria e altrui interiorità, scegliere di averne cura: questo ci viene richiesto - tra le altre cose - come professionisti, studenti o volontari. Come posso prendermi cura di te senza vederti davvero? Come posso prendermi cura di te senza vedermi davvero? Se il vissuto - il mio e quello di chi assisto - è privato della giusta attenzione la Cura si riduce a un atto tecnico, un fare significativamente asettico. Non è più Cura, diventa qualcos’altro.
Sono un essere umano, niente di ciò ch'è umano ritengo estraneo a me Può capitare, come operatori sanitari, di essere scorti nell’atto di vedere davvero e di prendersi cura di ciò che si è scelto di vedere .
Scrive Florence Nightingale :
Voi sarete dunque apostoli, lo vogliate oppure no; pensate solamente alle persone con le quali stringete una vera amicizia e per le quali, come per i vostri malati, potete essere apostoli di bene e di male, di indifferenza, di egoismo, di leggerezza, oppure di spiritualità e di amore agito a dovere, praticato fin nei più piccoli particolari .
Apostolo , termine che nel greco classico significa "inviato, rappresentante”. Colui che non solo trasmette un messaggio, ma che ne personifica il significato. Tutti noi, nella vita privata e professionale, ci facciamo portavoce dell’Umano che incarniamo : possiamo essere portatori di bene e di male; di cura e di negligenza; di verità e di bugia; di sapienza e di ignoranza; di dono e di egoismo; di leggerezza e di grevità; di coraggio e di viltà; di virtù e di vizio; di libertà e di prigionia; di attenzione alla propria, o altrui, interiorità e di fuga da essa; di amore e di odio, indifferenza, disgusto, violenza.
In ognuno di noi risiedono tutti questi e molti altri semi e decidiamo ogni giorno - più o meno consapevolmente - di fornire nutrimento ad alcuni a scapito di altri: lo facciamo attraverso le azioni che compiamo (o non compiamo), le parole che esprimiamo (o non esprimiamo) e la messa a fuoco che pratichiamo sul nostro - e altrui - mondo interiore composto da idee, emozioni, sentimenti, modi di pensare, vissuti, aspettative e cose a cui non riusciamo neppure a dare un nome e che ci mettono in questione.
Nessuno è esente da questa faccenda umana: essa è singolare - ovvero, assume i caratteri peculiari di ogni individuo - e al tempo stesso è profondamente universale. Nel contatto tra me e l’altro - e tra me e il mio mondo interiore - tento di tenere bene a mente, per tale motivo, questa massima: Sono un essere umano, niente di ciò ch'è umano ritengo estraneo a me .
Caos e Ordine coesistono in ogni attimo, in ogni cosa: il cambiamento immutabile; la morte d’ogni istante della vita, la vita che ha l’occasione di riemerge nuova - e al tempo stesso inconfondibile - da ogni morte; la salute che può essere mantenuta o riacquisita - in qualche misura - nella malattia, la malattia che può colpirci nel pieno della nostra salute.
Da ogni Ordine può emergere nuovamente il Caos e da ogni Caos può essere ricostruito un nuovo Ordine: questo concetto è ben sintetizzato dal Taijitu, ovvero la rappresentazione dello Yin e dello Yang. Nessuna cosa può essere completamente Yin o completamente Yang: essa contiene il seme per il proprio opposto, sono interdipendenti, hanno la stessa origine e l’uno non può esistere senza l’altro.
All’interno del nostro animo abitano potenzialità e attualità che fanno la differenza per noi, gli altri e il mondo in cui viviamo. Non fraintendetemi: l’esterno può influenzare, e non poco, la nostra esistenza. Lo fa quando il contesto di lavoro, di studio e di vita in cui passiamo buona parte del nostro tempo non funziona come dovrebbe; quando la sfortuna - o la fortuna - ci colpisce; quando l’inaspettato, la perdita, la malattia, la povertà, la catastrofe, la morte vengono a trovarci; quando dalle relazioni che abbiamo nella nostra quotidianità emerge l’ignoto singolare - al tempo stesso universale - del mio animo e dell’animo dell’altro.
Ma ciò che, in definitiva, mi definisce non può essere questo “sconosciuto” scarsamente controllabile proveniente da dentro o da fuori di me: non posso essere - e sentirmi - una mera conseguenza di tutto ciò, una vittima della realtà, un prodotto del caos.
Quello che conta davvero è il significato che io attribuisco a queste esperienze vitali e indomabili, ovvero come queste si intrecciano con ciò che sono: come rispondo alle domande che la vita mi pone attraverso questi elementi esperienziali?
Come ho intenzione di agire, di parlare? A cosa desidero prestare attenzione in mezzo al caos che mi circonda e che, in buona parte, mi compone? Quale spazio-tempo di ordine e cura voglio costruire dentro e vicino a me? Spendo energie e tempo per “guardarmi vivere” periodicamente e così avere l’opportunità di accorgermi di cosa potrebbe - e dovrebbe - essere migliore in me e nella vita che conduco e svolgere, conseguentemente, un lavoro di crescita personale?
Oppure scivolo via insensibilmente raccontandomi che tutto in me va bene così com’è e che la causa della mia infelicità è il mondo brutto e cattivo in cui ritrovo? Abbiamo dentro di noi tutto ciò che è essenziale per far fronte alla vita che ci colpisce imperterrita. Forse non siamo ancora consapevoli di certe risorse che abitano assopite in noi, ma esse sono lì che ci attendono per essere destate e, successivamente, mantenute vigili e orientate.
Scrive Marco Aurelio : Scava dentro di te; dentro è la fonte del bene, e può zampillare inesauribile, se continuerai a scavare . Victor Frankl , ne “L’uomo in cerca di senso”, esprime in modo esemplare questa responsabilità radicale:
s’impone qui un rovesciamento di tutta la problematica del senso ultimo della vita: dobbiamo apprendere, e insegnarlo ai disperati, che in verità non importa affatto che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che la vita attende da noi .
In linguaggio filosofico si potrebbe anche dire: si tratta quasi di una rivoluzione copernicana; non chiediamo infatti più il senso della vita, ma sentiamo di essere sempre interrogati, come gente alla quale la vita pone in continuazione delle domande, ogni giorno e ogni ora, domande alle quali ci tocca rispondere, dando una risposta esatta, non solo in meditazioni oppure a parole, ma con un’azione, un comportamento corretto.
Vivere, in ultima analisi, non significa altro che avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di adempiere i compiti che la vita pone a ogni singolo, di fare fronte all’esigenza dell’ora.
Accorgersi della propria e altrui interiorità, scegliere di averne cura Questo ci viene richiesto - tra le altre cose - come professionisti, studenti o volontari. Come posso prendermi cura di te senza vederti davvero? Come posso prendermi cura di te senza vedermi davvero? Se il vissuto - il mio e quello di chi assisto - è privato della giusta attenzione la Cura si riduce a un atto tecnico, un fare significativamente asettico. Non è più Cura, diventa qualcos’altro.
Luigina Mortari descrive molto bene questo concetto: l’essenza della Cura è nell’essere una pratica relazionale che impegna chi-ha-cura nel fornire energie e tempo per soddisfare i bisogni dell’altro - bisogni materiali e immateriali - in modo da creare le condizioni che consentano all’altro di divenire il suo proprio poter-essere sviluppando la capacità di avere cura di sé. C’è dunque una cura che preserva la vita da quanto la minaccia, quella che ripara quando si creano fessure di sofferenza e quella che la fa fiorire offrendo all’altro esperienze in cui poter vivere una pluralità di differenti modi del divenire il proprio poter-essere.
Può capitare, come operatori sanitari, di essere scorti nell’atto di vedere davvero e di prendersi cura di ciò che si è scelto di vedere. Spesso può essere la persona che stiamo assistendo che ci fa notare la preziosità della nostra premura: attraverso un’attestazione, uno sguardo grato, un gesto commosso e riconoscente, un silenzio.
Altre volte possono essere i cari della persona che stiamo assistendo a farci presente a parole o a farci notare con i loro gesti che la loro famiglia si sente davvero presa in carico da noi. Gratitudine per essere stati educati adeguatamente e per essere ora in grado di essere più autonomi nella comprensione, nell’agire e nell’Essere; Gratitudine per essere aiutati o sostituiti in ciò che non possono più compiere da soli; Gratitudine per essere stati ascoltati, guardati, supportati, non giudicati, non abbandonati; Gratitudine per aver salvato la vita che è in loro; Gratitudine per aver difeso la loro dignità, la loro libertà, la loro umanità.
Scrive un infermiere che opera nel contesto dell’emergenza-urgenza preospedaliera della mia città d’origine: oggi, mentre ripristinavo l’ambulanza assieme al collega, abbiamo ricevuto un ringraziamento: “Grazie per come avete trattato mio papà”. Con l’attenzione al materiale, frugando tra i cassetti e facendo ordine ho risposto chiuso, di circostanza “si figuri, ci mancherebbe…”. Ma, rendendomene conto, mi sono fermato. Gli occhi lucidi nel viso di quell’uomo dicevano tutto: aveva appena perso il padre .
Lo abbiamo soccorso per un sanguinamento acuto, nel pieno di una gravità che consegue più dagli anni avanzati che dall’origine del problema. L’uomo era stabile e nulla lasciava presagire una morte così vicina. L’ambito del soccorso preospedaliero è caratterizzato da brevi contatti con i pazienti e le famiglie, manca forse il tempo necessario per acquisire la fiducia delle persone; quando la loro quotidianità viene interrotta noi arriviamo ed il tempo assume un’altra dimensione .
In momenti diversi, a volte concitati, forse proprio i peggiori della loro vita, chi lo può dire… Di questo, purtroppo, ce ne dimentichiamo spesso, immersi nella routine dell’ennesimo intervento, tra le decine di volti che incontriamo nel corso di un turno. Allora mi chiedo: quel momento, il tempo del nostro soccorso, quanto è stato importante per quella persona che ora ringrazia? Non ha altro a cui pensare? Viene a ringraziarmi… e ha appena perso il padre .
L’importanza e la priorità di dire “grazie” andava oltre tutte le possibili reazioni al lutto. Il valore è inestimabile. Questo è ciò che amo del mio lavoro, quello che di buono mi porto a casa, quello che mi riempie la giornata e non lascia più spazio ai pensieri negativi, al peso dei sacrifici e delle difficoltà .
E mi ritrovo, nella memoria, in quel corridoio d’ospedale. Una cartellina gialla tra le mani, le mani e la fronte sudata. Un ascensore. I tuoi occhi gonfi, il corpo chiuso. Non ci sono parole che posso donarti che abbiano più senso del mio silenzio presente.
Non so perché la mia vita ha incrociato la tua, non sai perché la tua vita ha incrociato la mia. Tuo padre c’è ancora, o forse non c’è già più. Non lo so. Ora è tempo da dedicare al silenzio. Un piccolo sospiro. Grazie , mi dici. Grazie per esserci stato .