Un detto popolare che si riferisce ai danni della maldicenza, ma, per estensione, fa riflettere su quanto possono ferire le parole, in tutti i contesti. La parola scambiata definisce la nostra umanità ed è potere ed anche un buon mezzo per nascondersi, fuggire, evitare.

Nella pratica di cura le parole sono parte essenziale

Possono potenziare o compromettere i risultati dei trattamenti e comunque incidono fortemente sul benessere del paziente e non meno sulla soddisfazione che il curante può trarre dal proprio lavoro.

Nella cura le parole devono rinunciare a essere armi contundenti e possono diventare veicolo di civiltà, perché è proprio nella cura il luogo in cui la corporeità si mostra in tutta la sua fragilità e la fragilità del malato riporta i curanti alla propria, ineludibile, fragilità umana.

Come ci ricorda Sandro Spinsanti:

Ogni farmaco può essere sia un rimedio che un veleno. La stessa qualifica si può attribuire alle parole, che accompagnano da sempre il processo della cura… Le parole della cura sono difficili da pronunciare, e per questo richiedono delicatezza, equilibrio e soprattutto onestà.1

Sono “parole oneste” quelle che presuppongono un ascolto e fioriscono in un dialogo tra opinioni e sensibilità diverse e possono nascere solo in una conversazione che coinvolga tutti coloro che partecipano al processo di cura (professionisti sanitari e reti sociali, familiari e amicali dei pazienti), gestendo le differenze e facendo parlare tra loro mondi morali diversi.2

Come esistono metodi e criteri per valutare gli aspetti biologico-scientifici della medicina e l’utilizzo di un farmaco o di un trattamento presuppone prove di efficacia, così l’onestà può essere il criterio di efficacia su cui basarsi per valutare le parole nei diversi scenari in cui avviene la cura.

Professionisti competenti tanto nelle scienze biomediche quanto nelle medical humanities possono promuovere e praticare una bioetica capace di contrastare l’uso, purtroppo diffuso, di parole velenose e così fare spazio alla speranza, che si attualizza attraverso le parole.

È componente della competenza di chi cura fare il possibile perché la speranza - qualunque degna di tale nome - trovi sempre domicilio nel cuore del paziente; possiamo dire, in metafora, che è un po' come dare la possibilità di scoprire da una prospettiva inedita l’altra faccia della luna.

Sperare è fare ipotesi, implica l'apertura ad altri mondi possibili3 e consente un cambio di prospettiva, da quella problematica dell’oggi a quella più felice di un passato che si lega al presente grazie ad un’ancora locutiva4 e, attraverso l’intuizione, si proietta in un futuro, tracciato dalle parole, dove può abitare la speranza.

Così si può dire:

Se non avessimo fatto questi esami ora non sapremmo che la terapia da fare è questa. Faremo la terapia e crediamo che tutto possa andar meglio

Invece di:

Purtroppo i valori di questi ultimi esami ci dicono che la situazione è peggiorata

La prospettiva adottata dalla psicolinguistica5 per le ricerche sulla "tecnica senza teoria" si avvicina all’etica indagando non sul significato di bene, ma per diventare uomini buoni (come già suggeriva Aristotele).

Il vero è considerato da diverse angolature (…) ma questa è la prospettiva che racchiude tutte le altre, quella di guardare a qualcosa di trascendente rispetto sia alla tecnica sia al metodo, e che si configuri, nei tre gradini ascendenti di tecnica, metodo, etica, come un'etica del Conversazionalismo,6 l'etica della felicità conversazionale.7

Torniamo a Spinsanti, che ci richiama all’urgenza di sostituire la conversazione di natura paternalistica o difensivistica con una nuova modalità di conversazione, che coniughi leggerezza e profondità, ricerca di verità, speranza e tolleranza.

Il colloquio in medicina è un’arte che richiede di essere coltivata e curata

Come per tutte le arti non esistono regole certe o procedure definite una volta per tutte; ci si deve basare su un profondo reciproco rispetto dei conversanti in un clima di lealtà e trasparenza e, dopo, utilizzare tecniche e strategie di provata efficacia, avendo sempre, come bussola che ci guida, la consapevolezza di avere davanti una persona unica e non standardizzabile.

La relazione efficace nell’assistenza sanitaria può esser tale solo all’interno di una reciproca consapevolezza:

  • della differenza di ruoli (e di potere) tra curante e curato che deve guidare il curante nella pratica della relazione come strumento di cura attraverso un uso professionale della parola
  • della uguaglianza di esseri umani, che si esprime con lealtà, trasparenza di pensiero, onestà di intenti e rispetto reciproco, sia che si trovino nel ruolo di ammalato, sia in quello di chi presta le cure

Come in genere succede quando sappiamo porci in relazione e valorizziamo in pieno l’altrui e la nostra dignità di persone, i vantaggi sono reciproci: non solo l’ammalato ne gioverà, ma anche noi sanitari, che abbiamo il privilegio di aver scelto una professione che si occupa con tanta profondità e tanta intimità dei nostri simili.