Sonia non ha paura. O almeno, non ne ha più da quando è riuscita in parte a superare la malattia. Un tipo di depressione definita "ansiosa", che le ha causato numerosi attacchi di panico, cambiandole la vita in un doloroso passaggio da Oss a paziente.

Da Operatore socio sanitario a paziente e ritorno. La storia di Sonia

Sonia, Oss: I miei anni difficili per la depressione ansiosa

Trascorsi due anni da quegli interminabili giorni in cui confessa "non riuscivo neanche ad alzarmi dal letto", oggi Sonia racconta di essere finalmente ritornata a vivere, pronta a rimettersi in gioco per i suoi assistiti.

Non sono completamente guarita - ammette - ma grazie all'aiuto di psicologi e colleghi sento di poter affrontare di nuovo il mio lavoro.

Ciò che è accaduto a Sonia è un problema tanto comune quanto sottovalutato nel mondo del lavoro. Si tratta di una profonda crisi comportamentale causata da un forte stress lavorativo. Un male che da quando l'ha colpita, le ha reso quasi impossibile qualsiasi relazione interpersonale e attività quotidiana, al punto da dovere abbandonare il suo posto da Operatore socio sanitario.

Il numero sempre crescente di ore in servizio, il trasferimento da un reparto all'altro e la lontananza dai miei colleghi storici mi hanno portato a vivere ogni ora trascorsa in reparto come una condanna, racconta Sonia quasi per giustificarsi. Come se fosse una colpa ammalarsi. E quindi ci si scusa con il mondo, con chi lo pretende e anche con sé stessi.

In realtà bisognerebbe pensare che la debolezza fa parte dell'essere umano e che in contesti, come quello ospedaliero, in cui tutte le sensazioni sono accentuate, è facile, senza un regolare supporto psicologico, finire nel buio. E forse è proprio quello che dapprima è mancato a Sonia.

Per lei sono stati anni difficili da sopportare. I tempi in cui si sentiva orgogliosa per quello che faceva erano diventati soltanto un lontano ricordo. Oggi si ripete sempre che prima di arrivare al limite della propria sopportazione forse avrebbe dovuto ascoltare i campanelli d'allarme.

Prima di finire in terapia farmacologica avrei dovuto consultare uno psicologo o parlare con qualcuno e invece mi sono nascosta per paura di tutto e tutti, conferma.

Il timore più grande era quello di un potenziale contagio, visto che da anni lavorava nel reparto di malattie infettive e così dice: Ero arrivata al punto di finire da sola un pacco di guanti a turno, oppure di fare un uso smodato di gel disinfettante per le mani, causandomi una brutta dermatite. Per non parlare - continua - delle mascherine, che ormai indossavo anche senza motivo. Non stringevo mai le mani ai miei colleghi, stavo lontana da loro per evitare che potessero trasmettermi eventuali batteri, non mangiavo mai in mensa e neanche in reparto. Mi ero isolata da tutti e la cosa di cui mi sono vergognata di più è stata senz'altro quella di chiudermi in bagno durante l'igiene personale dei pazienti. Piuttosto che affrontare il contatto diretto con loro avrei fatto di tutto.

A peggiorare la situazione di Sonia si aggiungevano carichi di lavoro sempre maggiori. Infatti, la clinica aveva fatto dei tagli sul personale e chi era era rimasto doveva compensare agli ammanchi, per esempio, come racconta lei stessa, "saltando i riposi e svolgendo il lavoro di due o tre persone. Si correva sempre tra igieni, pulizia delle stanze, dei carrelli e la dispensa. Tutto con un occhio rivolto ai pazienti, che in alcuni casi diventavano pericolosi, lasciando le proprie stanze anche quando non avrebbero dovuto, perché pazienti in isolamento".

L'atteggiamento di Sonia e le lamentele di qualche collega però non hanno tardato a richiamare l'attenzione della coordinatrice, che dopo averla convocata e capito di cosa si trattasse le disse che, per il suo bene, era il caso di fare una segnalazione ai piani alti. Infatti, è stato proprio grazie a quel colloquio che l'operatrice è riuscita ad iniziare un percorso di cura.

La direzione è stata - dice - molto comprensiva. Mi ha concesso un lungo periodo di astensione dal lavoro, dapprima pagato al 100% e poi al 70% e la consulenza gratuita di uno psicologo che mi ha seguita in questi anni.

Uscire dalla depressione non è facile e forse non è neanche del tutto possibile, almeno in tempi brevi. In effetti - sostiene con un po' di autoironia - ci sto lavorando. Quello che ho capito dalle sedute sostenute con lo psicologo è che probabilmente avrei dovuto chiedere aiuto quando mi sono accorta che quel lavoro che ho tanto amato ed amo ancora, era diventato per me una trappola. Adesso ho superato molte paure, compresa quella del contagio. Non mi agito quasi mai e se lo faccio so come reagire. Da qualche mese ho ripreso a lavorare in ospedale, ma per precauzione in un altro reparto, dove mi hanno ridotto le ore ed eliminato temporaneamente i turni notturni. E non c'è cosa più bella che stare accanto al paziente.

Sonia insegna che per aiutare gli altri bisogna prima di tutto essere in grado di aiutare sé stessi. Capire dove finisce il proprio limite e non vergognarsi di manifestare, finché si è in tempo, il disagio per una situazione pericolosa per la propria incolumità. In fondo, sono proprio loro, infermieri ed Oss sui quali gravano un enorme carico di responsabilità e tensioni emotive, i pazienti che hanno bisogno di maggiori attenzioni.