Cesena, ospedale Bufalini. Chiudete per un attimo gli occhi e immaginate di essere appena tornati dalle ferie, pronti a indossare di nuovo la divisa e a riaprire il vostro armadietto, quello che custodisce effetti personali e routine quotidiane. E invece, nello stesso gesto familiare, vi trovate davanti a tre parole tracciate con l’indelebile, impossibili da ignorare, un marchio violento inciso sulla lamiera: “frocio del cazzo”.
Una violenza che attraversa i muri degli ospedali Scritta omofoba su armadietto
Non un graffito qualunque, ma un insulto mirato, inciso proprio dove un infermiere dovrebbe sentirsi al sicuro: nel suo ambiente di lavoro.
Il collega protagonista di questa vicenda ha deciso di non tacere.
Ha scelto di raccontare la violenza subita, perché l’odio non può essere normalizzato, soprattutto in un luogo che dovrebbe garantire rispetto e sicurezza.
Tre parole scritte dove non possono non essere viste, dove chiunque può leggerle e collegare la mia faccia a quell’insulto.
Non cerca attenuanti, non concede giustificazioni:
L’odio non è un’opinione: è feccia, degrado, livore. È pura cattiveria.
E poi una riflessione che sposta il dolore personale sul piano collettivo: Io ho le spalle larghe e riesco a sostenerne il peso. Ma quanti non le hanno? Quanti potrebbero essere devastati da una simile vigliaccheria? .
Mattia sceglie di raccontare non solo per sé, ma per chi ancora non trova la forza di farlo. Il suo messaggio diventa così un atto di solidarietà e di resistenza: un invito a non vergognarsi, a non sentirsi soli, a sapere di essere dalla parte giusta della storia.
Quello che è accaduto a Cesena, non è una “ragazzata”, non è uno scherzo di cattivo gusto. È omofobia. Una violenza che attraversa i muri degli ospedali, che si insinua tra i rapporti di lavoro e che colpisce chiunque non si conformi all’immagine che la cultura tossica e il senso di superiorità ancora impongono come norma.
Da dove nasce questa rabbia? Forse da un modello culturale che vede la diversità come minaccia, alimentato da un patriarcato che insegna a prevalere piuttosto che ad accogliere. Forse dall’ignoranza che si traveste da ironia, o dalla paura di perdere privilegi. Di certo nasce dal bisogno malato di sentirsi più forti, giudicando e insultando l’altro.
Perciò non possiamo tacere. Non si tratta solo di solidarietà verso un collega, ma di responsabilità collettiva. Perché se un infermiere viene insultato per il suo orientamento sessuale, viene insultata tutta la comunità professionale che crede nella cura senza discriminazioni.
Il nostro disgusto è un atto di responsabilità. Denunciare questi episodi significa smascherare le radici culturali che li alimentano, chiedere protocolli chiari e politiche inclusive anche negli ambienti di lavoro. Significa educare al rispetto, a partire dalle scuole fino ai luoghi di cura.
La scritta su quell’armadietto non è solo un atto vile. È uno specchio che riflette una società che ha ancora paura delle differenze. Sta a noi decidere se continuare a specchiarci in quell’immagine distorta o rompere il vetro e costruire un linguaggio nuovo, fatto di dignità, di rispetto e di umanità.
Oggi è toccato a Mattia. Domani potrebbe toccare a chiunque di noi, o a qualcuno che amiamo. Non possiamo girarci dall’altra parte. Denunciare, indignarsi, prendere posizione non è un gesto opzionale: è l’unico modo per proteggere la dignità di tutti.
La dignità di una comunità che se accetta l’odio come se fosse normale, tradisce se stessa e la propria umanità.